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Provincia di Belluno |
Rassegna stampa dedicata
il Corriere delle Alpi — 23 novembre 2003 pagina 37 sezione: SPETTACOLO
Una strada di guerra e di pace
Era nata come ideale via di comunicazione tra le valli del Boite e del Maè, ma
forse nessuno se ne ricordava. Ora finalmente l’appello dell’Uniteis per bocca
di Fausto Bortolot sembra trovare ascolto, richiamando la valenza della strada
della Chiandolada nell’economia e nel turismo di Zoppè e di Vodo, ovvero dei
comuni più interessati ad un buon collegamento alle falde del Pelmo, ad
un’alternativa attraente e conveniente tra Cadore e Zoldano. Questo esile ma
tenace “trait d’union” è già tornato in questi ultimi anni una via di
comunicazione agevole e di tutto rispetto, con l’ultimazione di importanti
lavori di allargamento e consolidamento, in particolare nel tratto “Coloi-Bus de
Ciandolada”. Ma per renderla davvero alternativa in tutti i sensi, bisognerebbe
richiamare un po’ dell’organizzazione teutonica di 100 anni fa, quando di questa
mulattiera, tanto importante per l’economia e la cultura cadorina, sì
occuparono, più in teoria che in pratica, la strategia e la guerra e, caso
curioso, il difensore come l’invasore, il Regno d’Italia come l’Impero
Austro-ungarico. Allorchè il Regno d’Italia, nel 1866, riuscì ad annettersi
anche questa parte del Veneto, sia l’itinerario da Vodo a Zoppè, sia quello da
Venas a Fornesighe, potevano dirsi ben povere cose. Fu proprio questa situazione
di generale precarietà di tutte le comunicazioni viarie a sud-est del Pelmo a
solleticare le diverse esigenze ed aspettative dello Stato Maggiore austriaco ed
italiano, paradossalmente volti entrambi a sanare un “gap” storico e civile in
nome di una spietata e perversa logica di difesa ed offesa. Vedeva così la luce
a Vienna, nel 1895, un accurato e singolare studio dello Stato Maggiore
austriaco, relativo alle possibilità di aggiramento del campo trincerato di
Pieve e della stretta di Venas. I nostri alleati-nemici, forti di quella
conoscenza topografica derivata loro dal lavoro svolto dai propri mappatori
prima del 1866, identificarono due possibilità in tal senso, inerenti
rispettivamente la strada di Forcella Chiandolada e quella di Forcella Cibiana.
Con acribia davvero teutonica essi divisero i due percorsi in segmenti ben
distinti, vagliando caso per caso caratteristiche tecniche e preventivi di
lavoro necessari per apportare tutte le migliorie ritenute indispensabili per il
transito delle colonne e delle salmerie. Il percorso Vodo-Forcella
Chiandolada-Forno di Zoldo fu selezionato in 9 segmenti, analizzati e
classificati secondo caratteristiche, larghezza, lunghezza, pendenza, condizioni
e soprattutto giornate di lavoro ed attrezzature necessarie per renderli atti ai
convogli militari. La strada, secondo questi calcoli, necessitava di vari lavori
quantificati in 12.070 unità lavorative giornaliere. Tale esame fu condotto, con
gli stessi criteri e classifiche, anche per la strada di forcella Cibiana,
portando alla conclusione che per un suo adeguamento bastavano 6980 unità
lavorative giornaliere, poco più della metà della strada della Chiandolada. Gli
austriaci pensavano comunque di poter concludere tutti i lavori entro 16 giorni
al massimo, impiegando in zona circa 1000 operai, dotati di tutti gli attrezzi
atti allo scopo. Da parte italiana si continuò a lungo ad essere indecisi sulle
due ipotesi di strada, in quanto la scelta era subordinata all’individuazione di
un’opera fortificatoria in grado di fermare una penetrazione nemica. E quando,
dopo lunghe diatribe, si decise per il forte di Pian dell’Antro a Venas e il
Monte Rite, è chiaro che si provvide a migliorare il tronco Venas-Cibiana
anziché quello di Vodo-Zoppè. Insomma, con una sorta di agra ironia, si potrebbe
osservare che per avere oggi un migliore collegamento verso la Chiandolada
avrebbero dovuto lavorarci i nostri nemici dopo Caporetto. Ma non lo fecero
semplicemente perché non ce ne fu bisogno: la strada era libera fino alla
pianura e se aggiramenti dovevano essere fatti, questi erano compito di Rommel,
ma dall’altra parte del Piave, verso la Val Cellina. - Walter Musizza e Giovanni
De Donà
il Corriere delle Alpi — 05 febbraio 2004 pagina 27
sezione: PROVINCIA
Nuova vita agli antichi forti
CADORE. E’ noto che la provincia di Belluno rientra in molti programmi Interreg
III A (2000-06) avviati dalla Comunità europea per promuovere lo sviluppo delle
regioni transfrontaliere. Uno di essi mira a valorizzare il patrimonio storico
culturale lasciato dagli eventi della Grande Guerra. Tale progetto coinvolge i
territori delle Comunità montane di Agordino, Centro Cadore e
Longaronese-Zoldano, sviluppando due linee d’intervento. La prima riguarda la
linea del fronte Auronzo - Cortina - Dobbiamo - Livinnalongo - Rocca Pietore -
Colle S.Lucia; la seconda interessa la cosiddetta Fortezza Cadore Maè e tutti
gli apprestamenti della cosiddetta “linea gialla”, linea di massima resistenza
potenziata e presidiata fino ai drammatici giorni del dopo-Caporetto.
Interessato a questo secondo settore è soprattutto il Cadore, con i suoi forti
corazzati d’alta quota (Vidal, Tudaio, Col Piccolo, Rite, Miaron, Pian
dell’Antro). Oltre alle azioni di recupero, sono previste iniziative
promozionali (visite, guide, articoli, dépliants...), la raccolta e traduzione
di documenti provenienti dagli archivi italiani e austriaci e l’allestimento di
mostre itineranti nelle scuole. Lo studio dell’architetto Ivano Alfarè, sulla
base anche degli studi di un Comitato scientifico guidato da Mario Fornaro, ha
presentato i progetti esecutivi per le azioni di recupero ad Auronzo, Lorenzago
e Vigo. Pochi giorni fa ha visto la luce l’ipotesi di recupero e valorizzazione
per il territorio del Pian dei Buoi, dove esistono notevoli manufatti e siti
risalenti alla Grande Guerra, spesso lontani tra loro e non adeguatamente
segnalati, per cui è stato anzitutto importante privilegiare alcuni interventi,
permettendo la futura gestione di percorsi escursionistici. Per il Pian dei
Buoi, detto un tempo altopiano di Sovergna, è stata ipotizzata un’azione di
manutenzione del fondo della strada d’accesso al forte da Sora Crepa, con il
rifacimento delle canalette in pietrame, la sistemazione del fondo, la
ricostruzione di alcuni tratti di muro e la sistemazione della piazzola con
fontana nell’area della caserma “Montiglio”. Si provvederà inoltre alla
sistemazione del tracciato del sentiero di Val di Porte, aperto da cacciatori
volontari di Lozzo, e alla ricostruzione del ricovero-osservatorio di Col
Cervera, erede di una delle prime casermette degli Alpini e a suo tempo in
collegamento ottico con i forti di Pieve e Tai. L’area del forte di Col Vidal
(attualmente ancora del Demanio) sarà interessato invece da un’azione di
pulitura dalla vegetazione, ormai debordante tra i ruderi, e dall’installazione
di panchine e tavoli per i turisti. Per tutti gli interventi, saranno usati
materiali tradizionali e locali, con un’attenzione specifica ai prodotti e agli
elementi in uso all’epoca della costruzione originaria, e saranno posizionati
indicatori segnavia e pannelli descrittori nei luoghi più interessanti. Anche i
materiali di cava necessari per la creazione del fondo dei sentieri e delle
piazzole saranno ricavati in cave di zona, mentre il legno per gli elementi di
arredo sarà reperito sul posto con i tagli resi necessari dalla pulizia dei
sentieri. Dunque, anche per Col Vidal, come avvenuto sul monte Tudaio e sul Rite,
sembra aprirsi una nuova pagina, a quasi 90 anni dalle esplosioni con cui
l’esercito austriaco in ritirata volle lasciare questo poderoso sistema di
forti, vanto di un Regno d’Italia che, anche con queste realizzazioni, aveva
perseguito la sua ambiziosa politica di potenza emergente. Tutto questo nello
spirito della legge del 7 marzo 2001 78 relativa alla tutela del patrimonio
storico della I Guerra mondiale, ma soprattutto nella consapevolezza, da parte
della popolazione locale, di salvaguardare una pagina importante di storia
nazionale, di enormi potenzialità culturali e turistiche. Walter Musizza
Giovanni De Donà
il Corriere delle Alpi — 14 ottobre 2004 pagina 33
sezione: SPETTACOLO
Vodo presenta la «sua» Grande Guerra
OGGI nella Sala della Regola di Vodo di Cadore sarà inaugurata la mostra “I
luoghi della Grande Guerra in provincia di Belluno”, realizzata nel contesto del
Progetto Interreg III Italia-Austria 2000-06. L’esposizione, aperta fino al 27
ottobre, oltre a un’esauriente panoramica degli aspetti del primo conflitto
mondiale tra Agordino, Zoldano e Cadore, presenterà una speciale sezione
dedicata agli interventi di recupero e valorizzazione finora effettuati nel
territorio di Vodo, in particolare sulla riva destra del Boite. Essa permetterà
tra l’altro di fare il punto sull’ambizioso programma già avviato dalla
precedente amministrazione guidata da Domenico Belfi e teso a ripristinare un
notevole patrimonio di trincee, postazioni, strade ed osservatori di grande
valenza strategica e tattica, in grado di offrirsi nei prossimi anni come
interessante meta turistica. Si tratta di una serie di realizzazioni volute nei
primi anni del ’900 e rientranti nel dogma, allora imperante, di una linea di
massima difesa, presunta insuperabile, appoggiata ai forti corazzati e distesa
dalle Marmarole a Casera Razzo, da Forcella Scodavacca al Rite. Durante il
conflitto tale “linea difensiva di massimo arretramento o estrema resistenza”,
detta convenzionalmente “Linea Gialla”, aveva lo scopo di sostenere la difesa in
caso di trasferimento di unità in altri settori e nel settore della IV Armata si
sviluppava tra monte Penna, Rite, Antelao, Marmarole, Tudaio e Casera Razzo,
località quest’ultima in cui veniva a collegarsi con la linea arretrata di
difesa a oltranza della Zona Carnia. Di particolare importanza risultava
l’andamento di tale linea sulla riva destra del Boite, dove doveva assicurare il
collegamento con gli impianti dello Zoldano, facendo praticamente da cerniera
tra le opere della Fortezza Cadore-Maè e quelle dell’Agordino e della Val Maè.
Le posizioni, sussidiate da strade e ricoveri, avevano anzitutto il compito di
raccordare le fortificazioni di Rite, Col Vidal, Pian dell’Antro e Tudaio con
quelle dello Sbarramento Cordevole, in particolare dello Spiz Zuèl (m 2033) e
del Col de Salèra (m 1629), che attraverso Forcella Chiandolada andavano a
rannodarsi con le difese approntate a Val di Cuze e sul Becco di Cuze (m 1724),
sopra Vodo di Cadore. La costruzione del poderoso impianto corazzato di Rite
sopra Fordella Cibiana (m. 2183), ultimato nel 1915, impose inoltre l’adozione
di numerose difese complementari sulle alture sottostanti, una rete elaborata di
trincee, postazioni e mulattiere di collegamento, con postazioni per
mitragliatrici e artiglieria da campagna. Vodo dunque ha voluto riscoprire e
valorizzare un apparato difensivo articolato e in gran parte sconosciuto, un
autentico patrimonio storico che rischiava di essere fagocitato dalla
vegetazione. Proprio perché le posizioni erano solide e in grado di alimentare
almeno un conato di resistenza, qui la IV Armata di Robilant cercò di ritardare
in qualche modo la ficcante penetrazione austriaca lungo il Boite, resistenza
che finì col costare a Vodo l’8 novembre 1917 la distruzione pressoché totale
delle sue case, nonché mille traversie alla sua terrorizzata popolazione.
Particolare attenzione nello studio e ripristino è stata dedicata alla zona del
Becco di Cuze, dove si trovano diverse gallerie e depositi per artiglieria, e
sulla linea Crepe di Serla-Penna (m 1700-1900), dove correva in cresta una
attrezzata linea difensiva per la fanteria. Di particolare interesse poi nella
zona di Val Cason un bellissimo acquedotto, recentemente ripulito e valorizzato
dal Comune di Vodo con precisa segnaletica e utilizzato probabilmente per
fornire d’acqua i numerosi attendamenti militari organizzati nella zona di
Casera Cercenà (m 1532) durante il conflitto. L’apertura di questi nuovi
percorsi storici, sotto la direzione dell’architetto Alfarè Lovo e del comitato
scientifico appositamente incaricato, permetterà a molti appassionati un’attenta
rivisitazione delle logiche strategiche e tattiche che presiedettero alla
concezione e costruzione di queste difese e renderà possibile una fruizione
matura dell’intero comprensorio. E ci si attende pure da tutto ciò un adeguato
rilancio del rifugio Talamini presso Forcella Chiandolada, che dopo la parentesi
buia dei recenti atti vandalici che hanno decretato il suo sequestro, aspira
legittimamente a catalizzare nuovi flussi di escursionisti evoluti e
specialmente attenti al binomio natura e storia. - Walter Musizza e Giovanni De
Donà
il Corriere delle Alpi — 12 novembre 2004 pagina 29
sezione: PROVINCIA
A Valle il recupero dell'Antro
VALLE. Il Percorso della memoria, voluto dall’assessore regionale al turismo
Floriano Prà, avrà una tappa anche nel comune di Valle. In questi giorni sono
iniziati i lavori di recupero della zona dell’ex forte di Pian dell’Antro.
Costruito dagli italiani nel 1910-1914, il forte fa parte del ridotto cadorino
detto anche fortezza Cadore-Maè e della fortezza Cordevole, costruita attorno ad
Agordo con l’intento di contenere un eventuale attacco austriaco. I lavori di
recupero, finanziati dal comunale di Valle, dalla comunità montana Centro Cadore
e dalla Regione, sono stati appaltati alla cooperativa sociale «La Via». La
prima fase di lavori consiste nel taglio degli alberi all’interno del forte e
nelle sue adiacenze, nella posa delle griglie divelte all’interno della
struttura e il ripristino delle staccionate. Inoltre sarà montato un pannello
informativo sul quale sarà riportata la storia del forte e della fortezza
Cadore-Maè. Sarà anche rimessa in ordine la strada d’accesso. La parte del forte
nella quale erano sistemati i cannoni è stata completamente distrutta. Sono
invece rimaste intatte le postazioni. L’amministrazione comunale di Valle, con
il recupero di queste strutture, intende portare anche sul suo territorio il
grande circuito della Grande Guerra, che sembra essere uno dei business
turistici dell’avvenire. (v.d.)
il Corriere delle Alpi — 13 novembre 2004 pagina 27
sezione: PROVINCIA
Restauri nella fortezza dimenticata
CIBIANA. E’ a poche centinaia di metri dalla strada d’Alemagna, ma le lunghe
code di automobilisti neanche si accorgono del suo incombere sulla stretta di
Venas. Eppure costituì 90 anni fa una degli impianti più moderni della Fortezza
Cadore-Maè, opera collegata al forte del Rite, di cui era considerato a buon
diritto il fratello maggiore. E’ il forte di Pian dell’Antro, sulle falde
meridionali del Col S.Anna, poco prima del bivio da cui parte la strada che
porta sulla riva opposta del Boite e quindi a Cibiana. Dopo 90 anni finalmente,
nel contesto dei nuovi interessi fioriti attorno alle opere della Grande Guerra,
è possibile fare qualcosa per fermarne il degrado. Grazie a circa 25.000 euro
stanziati dal Comune di Valle, dalla Comunità montana Centro Cadore e dalla
Regione, si eliminerà la vegetazione entro il perimetro fortificato collocando
staccionate e griglie. Ci sarà anche un pannello informativo, perché in effetti
qui la storia ha molto da raccontare. Alla “chiusa di Venas”, infatti, fin dal
medioevo il Cadore organizzò la sua difesa, elaborando via via nel corso dei
secoli apparati difensivi di crescente impegno e ambizione, al fine di sbarrare
le provenienze nemiche da Cortina. Il forte, iniziato nel 1910 e voluto per
operare insieme alla “tagliata” situata poco più in basso, sulla strada
d’Alemagna, sorge a quota 1050 metri ed è raggiungibile dall’ex arteria militare
che sale fino a Col S. Anna e al Pian di Sadorno grazie ad una stradina di
servizio che in poche decine di metri porta al piazzale d’armi di una grande
caserma scavata nella roccia, lunga ben 60 metri, che costituisce il fronte di
gola dell’opera. Il forte di monte Rite, costruito a partire dal 1911 a 2183
metri d’altitudine, sulla riva opposta del fiume, non fu che il tempestivo
completamento, quale “opera alta”, del forte di Pian dell’Antro, giudicato
subito troppo basso e vulnerabile dalle alture circostanti. Ma se oggi in molti
salgono al Rite attratti dalla moderna (ma in qualche modo alterata) struttura
voluta da Messner, ben pochi visitatori si fermano a respirare le atmosfere
decadenti, ma originali di questo forte rimasto come la distruzione austriaca
l’ha ridotto 80 anni fa. Attraversato il cortile, si notano sul fianco destro
dell’edificio gli ingressi alle gallerie d’accesso ai depositi di esplosivo,
mentre nella caserma vera e propria si può entrare per due porte principali, una
a destra e una a sinistra della facciata. E’ possibile riconoscere ancor oggi la
destinazione dei vari locali al primo e secondo piano (cucina, posto di guardia,
cabina elettrica, servizi igienici...), ma forse la cosa più interessante è
percorrere il lungo corridoio che, scavato nella viva roccia e piegato verso
ovest, va a congiungersi con un’altra galleria proveniente dai depositi,
portando infine alla batteria corazzata. Quello che una volta era il “cuore” del
forte, la grande piattaforma di calcestruzzo (m 56 x 20 circa), nella quale
riposavano le 4 grandi cupole corazzate Armstrong per cannoni da 149 A, versa
oggi in penosa fatiscenza. Tra le lastre deflagrate, si riconoscono solo i
grandi crateri che recano ancora l’impronta dell’acciaio che li occupava, mentre
il lungo corridoio retrostante i pozzi, ingombro di macerie, è rimasto
miracolosamente in piedi nonostante l’evidente spostamento prodotto
dall’esplosione interna. Ma è la zona dei depositi sotterranei ad affascinare
più di tutto, con gli stanzoni adibiti a depositi di granate e di balistite,
nonché a laboratori, dai quali, con un percorso su rotaia, le munizioni venivano
portate all’elevatore, che provvedeva al loro inoltro alla batteria soprastante.
Trincee, corpi di guardia, strade di servizio, piazzole per piccoli calibri,
muri di cinta con feritoie e un osservatorio blindato completano il quadro di
questa cittadina fortificata, concepita come imprendibile e capace di resistere
per settimane ad ogni possibile invasione nemica. In questi depositi, furono
stipate enormi quantità di materiali e viveri provenienti dal fronte negli
amletici giorni del dopo Caporetto, quando si sperava ancora di difendere il
Cadore e di sfruttare il grande patrimonio di fuoco dei suoi forti. Invece, Pian
dell’antro, come il Tudaio, il Rite e il Vidal, fu abbandonato dopo aver sparato
poco o male (si pensi alle conseguenze su Vodo) ed essere stato solo
parzialmente sabotato, dispensando le sue dotazioni in parte alla popolazione
subito accorsa, in parte al sopravveniente e dilagante invasore austriaco.
Questo volle distruggerlo almeno nella parte più importante, ovvero nella
batteria corazzata, fissando in pratica quell’istantanea che oggi noi abbiamo di
fronte agli occhi. - Walter Musizza e Giovanni De Donà
il Corriere delle Alpi — 28 gennaio 2005 pagina 27
sezione: PROVINCIA
Il forte sul Rite spegne le prime 90 candeline
CIBIANA. Il moderno museo di Messner oggi è ospitato in una poderosa struttura
bellica ultimata nei primi mesi del 1915. Forse sarà colpa delle molte
suggestioni assicurate dalle collezioni storiche ed artistiche di Reinhold
Messner, forse sarà per il panorama mozzafiato che spalanca ai tuoi piedi tutta
la Val Boite parlandoti solo di bellezza e pace, ma certo la vetta del monte
Rite non sembra mettere oggi al primo posto la guerra e le sue esigenze
strategiche. Eppure il bel museo erge le sue avveniristiche strutture in acciaio
e cristallo proprio su quella che fu la batteria di un poderoso forte corazzato,
ultimato giusto 90 anni fa, nei primi mesi del 1915, e considerato giustamente
l’ultima e più moderna opera della Fortezza Cadore-Maè. Esso venne infatti
costruito dal Genio militare italiano a quota m 2183 per sbarrare le provenienze
austriache dalla Val Boite e dallo Zoldano e per operare in stretta sinergia con
l’ “opera bassa” di Pian dell’Antro, sull’opposto versante della valle. Fu il
capo di Stato Maggiore, generale Pollio, in una sua visita in Cadore nel 1910, a
sostenere l’ipotesi di un forte sul Rite, tanto da incaricare il Genio di
studiare il tracciato e il costo di una carrareccia dalla Val Boite alla cima,
nonché di un appostamento di artiglieria di medio calibro sulla cima. Nella
primavera del 1912 il comando del V Corpo d’Armata trasmise il progetto di
massima per l’opera e il Comune di Cibiana, tramite una convenzione con
l’Amministrazione Militare, cedette gratis tutto il terreno di sua proprietà
occorrente alla costruzione dell’intera arteria e dell’opera fortificata, il
sedime per i ricoveri e il legname necessario. I lavori sulla cima subirono
peraltro notevoli ritardi, che portarono l’intero complesso a presentarsi
impreparato alla guerra. La strada, che nel primo tratto, da Venas a Cibiana,
costituì un notevole vantaggio per la popolazione civile, essendo in pratica il
primo vero accesso al paese delle chiavi, conduceva a Forcella Cibiana e poi
alla vetta del monte, fino al piazzale della grande caserma che, lunga più di 60
metri ed alta più di 7, era organizzata su due piani, per un totale di 18 vani.
Un ulteriore braccio della strada portava dal piazzale fino agli accessi della
polveriera e dei laboratori per il confezionamento delle cariche. Il deposito
della balistite e delle granate, costituito da un grande locale di circa 120 mq,
veniva raggiunto tramite una galleria scavata nella roccia e lunga quasi 35
metri. La batteria consisteva in un blocco di calcestruzzo a forma di “U”
rovesciata, lungo m 81 e largo circa 20, con muri perimetrali in pietra
bocciardata e muratura interna in pietra. In tale struttura erano stati ricavati
4 pozzi con rampe d’accesso collegate tra loro da un corridoio
d’intercomunicazione, lungo m 78 e largo 3. Lungo questo corridoio e tra i 4
pozzi erano stati ricavati ben 14 locali, adibiti a riservette, ed una grande
stanza, destinata ad alloggio serventi. Nei 4 pozzi erano ospitati altrettanti
cannoni da 149 A, con copertura pesante, costituita da tre piastre in acciaio al
nichelio dello spessore di 140 mm. Il raggio d’azione dei cannoni, calcolato
sulla base di una gittata di circa 14.000 metri, possibile con la granata
monoblocco, veniva ad investire le principali direttrici d’invasione nemica, da
Cortina allo Zoldano, ma pure dalle Marmarole al Cridola. Tutto un complesso di
reticolati racchiudeva la linea fortificata per mettere la difesa vicina in
grado di respingere eventuali colpi di mano del nemico. A quota m 2013, 200
metri sotto Forcella Deona, una grande caserma a due piani fu adibita a ricovero
soldati, gendarmeria ed infermeria, mentre a nord-ovest di Monte Rite, a quota m
1793, sotto la Croce di Monte Rite, fu iniziata, ma mai ultimata, un’altra
grande caserma sempre a due piani. Allo scoppio della Grande Guerra il Rite era
presidiato dalla 10a cp del I Gruppo del 7º Reggimento Artiglieria da Fortezza e
dalla 62a cp del X Btg Presidiarlo, per un totale di circa 300 uomini. Aveva in
dotazione, oltre ai 149 in cupola, ben 4 cannoni da 70 M, 4 da 75 A, 4 da 149 G,
ma durante il conflitto il forte rimase tagliato fuori dal vivo delle operazioni
e venne chiamato in causa solo nei tragici giorni del dopo-Caporetto. I
rilevamenti fatti da ricognitori austriaci il 4 novembre 1917 permettono di
constatare come l’impianto fosse allora in perfetta efficienza, ma in corso di
abbandono da parte delle truppe. Non risulta che i suoi cannoni abbiano
partecipato all’azione di fuoco delle nostre difese della “Chiusa di Venas”
all’arrivo degli austriaci a Vodo l’8 novembre 1917. Sulla cima furono operati
limitati sabotaggi e vennero abbandonati pure i 3 pezzi da 149G su cingoli
ancora rimasti in dotazione. Gli austriaci, dopo aver prelevato nell’anno
dell’invasione molte munizioni del forte, lo danneggiarono esizialmente
nell’ottobre 1918. Il forte divenne base di partigiani cadorini della Brigata
“Calvi” nel 1944 e, rimasto da allora del tutto abbandonato, è tornato
d’attualità nel giugno 2002 con l’inaugurazione del nuovo museo di Messner. Il
forte è divenuto così un provvido contenitore di arte e di cimeli, ma attende
ancora spazio e materiali per raccontare la “sua” incredibile, paradossale
storia di perizia tecnica e di fallimento tattico.
il Corriere delle Alpi — 21 agosto 2005 pagina 27
sezione: PROVINCIA
Sui luoghi delle battaglie del 1848
VENAS. Ideale corrispondente dello sbarramento difensivo costituito dalla Chiusa
di Lozzo o Tre Ponti è senz’altro la “Chiusa” di Venas, voluta proprio per agire
in sinergia con le difese settentrionali e sbarrando cioè ogni provenienza
nemica dalla conca di Cortina o dalla Forcella Cibiana. Si può dire anzi che,
come la “Chiusa” di Lozzo era la sorella minore, quasi l’opera complementare e
“bassa” del castello di Pieve, la nostra costituiva invece la miniatura del
castello di Botestagno, la sua versione arretrata ed addirittura “casalinga”, ma
spesso dimostratasi più realistica ed efficace della difesa “madre”. Se infatti
l’ambizioso castello, troppo decentrato e principesco, fu quasi sempre tagliato
fuori dalle iniziative teutoniche, la Chiusa di Venas espresse invece in più
occasioni l’anima popolare ed indipendente dei fieri cadorini, pronti a
raccogliersi ai suono della campana. Là dove la forra del Boite e le alture
scoscese di Pian dell’Antro rinserrano ancora la gloriosa strada d’Alemagna, in
prossimità del bivio da cui parte la strada per Cibiana e lo Zoldano, il Cadore
volle (si può dire praticamente da sempre) imporre il proprio “alt” alle
provenienze nemiche, disposto a sacrificare l’ “Oltrechiusa” pur di garantire la
salvezza della “capitale” del suo piccolo stato, di Pieve cioè e del suo campo
trincerato di secolare tradizione. Un rudimentale dispositivo militare dovette
esistere probabilmente già nel X secolo, al tempo delle scorrerie degli Ungari,
ma viene ufficialmente citato per la prima volta solo nel 1414, sotto il
Patriarca Lodovico di Teck: esso consisteva originariamente in una tettoia o
baracca di legno, fornita di alcuni ordigni difensivi e dominante la strada in
prossimità della chiusa naturale esistente tra Venas e Peaio. Sappiamo inoltre
che, nel gennaio del 1452, si sostituì il “trabiccolo” di Venas con un
“fortilicium de muro”, cui vennero aggiunti pure dei locali per ricoverare gli
inabili, e che nel 1453 il Consiglio della Comunità decise di ricorrere a tali
apprestamenti difensivi per parare le minacce di numerosi vassalli tedeschi,
raccoltisi a Brunico e seriamente intenzionati ad invadere quanto prima il
Cadore. Nel 1508, in seguito alla caduta di Cortina, la chiusa divenne
fondamentale per la strategia della Serenissima e risulta che Bartolomeo D’Alviano
avesse riposto molte speranze in essa, ordinandone anzi un riassetto completo in
quei decisivi primi giorni di marzo. Ma come si presentava esattamente tale
apparato nel periodo d’oro della sua travagliata storia? Il Ciani così lo
descriveva nella sua “Storia del popolo cadorino” del 1862: “Un insieme di
torri, fra le due rocche di Pieve e di Botestagno, sorgeva sul dosso dirupato e
quasi inacessibile de monti, che levansi ripidissimi dal letto del Botte, che
spesso placido e lene, talvolta violento e irato, o ne lambe, o ne flagella i
piedi. Era nelle patrie consuetudini che nel sospetto di ostili incursioni
presidiassesi di un’eletta di milizie e che frenassero l’impeto de nemici almeno
tanto quanto bastasse alle donne, ai vecchi, ai fanciulli per mettersi in salvo
colle massariccie e cogli animali”. Nell’epopea di Rusecco presso di essa si
sarebbe combattuto per 4 ore, ma alla fine i 70 prodi difensori, guidati da
Matteo Palatini, sarebbero stati costretti, per l’avvenuta occupazione di Vinigo
da parte dei nemici, ad arretrare fino a Pieve. Sempre secondo il Ciani, tale
resistenza avrebbe anzi prodotto risultati di gran lunga migliori se il primo
responsabile della difesa, cioè il comandante designato Barnaba de Barnabò di
Domegge, non si fosse dimostrato pavido ed assolutamente impari al compito
assegnateli. Un altro capitolo importante per la Chiusa di Venas fu senz’altro
quello del 1848, allorché le guardie civiche si schierarono per molti giorni
presso questa posizione. In particolare la resistenza si focalizzò alle porte di
Venas il giorno 9 maggio, quando Calvi vi portò i suoi corpi franchi e due
cannoni, sventando i tentativi di attacco e di aggiramento da parte dell’Hablitschek.
Nella drammatica notte tra il 9 e il 10 i colli di Sadorno e le falde del Rite
furono contrappuntati da una lunga teoria di fuochi accesi dai cadorini e la
mattina seguente i corpi franchi nº 2 e 3, comandati da Taddeo Perucchi,
Sebastiano Del Favero e Giuseppe Giacomelli, respinsero con successo gli
attacchi nemici. Il giorno 21 gli austriaci tentarono una manovra per Forcella
Piccola sventata alle porte di Calalzo. Mentre il 28 circa 300 austriaci
assalirono”con razzi e cannoni” i nostri appostati a Sadorno “fulminando a ogni
parte il forte” (Ronzon), ma furono respinti e costretti a ripassare il confine.
Lo sbarramento dunque resistette sempre, ma alla fine risultò letteralmente
vanificato dal cedimento cadorino sulla Mauria e dalla stessa rinuncia del
Calvi, il 5 giugno, a protrarre ulteriormente una lotta ormai compromessa.
All’inizio di questo secolo, poi, i nostri comandi militari vollero non solo
costruire il grande forte di Pian dell’Antro sulle alture sovrastanti, ma
organizzare anche nel 1911, una “tagliata” sulla rotabile d’Alemagna, ovvero
un’interruzione stradale da armare con mitragliatrici e pezzi campali a tiro
rapido. Purtroppo il destino di tali difese nei giorni del dopo-Caporetto fu lo
stesso dell’intera Fortezza “Cadore-Maè”: i potenti e moderni mezzi non valsero
a fermare l’avanzata austriaca, soprattutto a causa di varie deficienze
personali. L’iniziativa di questa giornata è della Magnifica, nel 150º
anniversario della morte dell’eroe Pier Fortunato Calvi QUESTO IL PROGRAMMA Ore
9,30. Ritrovo presso la piazzetta di Venas. Salita a piedi per circa un
chilometro fino al forte di Pian dell’Antro e lezione sulla Chiusa di Venas nei
secoli (1508 e 1848) e sua evoluzione nel XX secolo nel forte corazzato. Visita
ai ruderi del forte. Ritorno a Venas fissato alle 12 (munirsi di pila o lampada
per visitare il forte).
il Corriere delle Alpi — 20 ottobre 2006 pagina 27
sezione: PROVINCIA
Un parco storico a metà fra tre paesi
PIEVE DI CADORE. Dopo vent’anni, nascerà finalmente il parco storico della
“Greola e della Cavallera”. Ne ha parlato lunedì scorso a Tai il sindaco di
Pieve, Roberto Granzotto. «La zona sud dei comuni di Pieve e Valle e quella nord
di Perarolo, in pratica quella che comprende al suo interno monte Zucco, dal
1986 è sottoposta a ben 35 strettissimi vincoli ambientali», ha spiegato
Granzotto, «e questo perché in quell’anno la Regione, che con il piano
territoriale regionale di coordinamento disegnò alcune aree da salvaguardare per
la futura costituzione di parchi, comprese in questa perimetrazione anche gli
ambiti per un parco archeologico chiamato “della Greola e della Cavallera” ». Il
territorio interessato comprendeùuna parte del comune di Valle (circa il 60%),
del comune di Pieve (circa il 30%) e del comune di Perarolo (il 10%): in totale
una superficie di circa 500 ettari. Da allora, pur non avendo istituito il
Parco, i vincoli rimasero tanto che, a causa di questi, il comune di Valle
rimase senza la possibilità di edificare nella zona compresa nei confini
stabiliti finchè una delibera regionale non eliminò qualche vincolo, riaprendo
l’edificazione. Da allora sono passati vent’anni e il sindaco di Valle, Matteo
Toscani, ha chiesto alla Regione di costituire finalmente il Parco. Un parco che
dovrà essere storico, non naturalistico. Il primo passo conseguente a questa
richiesta sarà la necessità di rivedere la perimetrazione, perché quella
delimitata nel piano originario non è più attuale. La costituzione del nuovo
Parco avrebbe dei riflessi economici non indifferenti per il territorio
interessato, perché i comuni compresi nella sua perimetrazione potranno accedere
a finanziamenti che altrimenti non avrebbero, comprese anche spese per progetti
di urbanizzazione. Da non dimenticare, ha anche ricordato il sindaco Granzotto,
«che dal 2007 al 2013 cambieranno le modalità per l’accesso ai finanziamenti
europei, che abbandoneranno la logica del contributo per territorio, passando a
quella “a progetto”. Attorno al progetto del Parco stanno dialogando con la
Regione i comuni di Pieve e Valle, avendo ognuno degli obiettivi ben precisi da
realizzare. Tra l’altro i parchi possono accedere ai benefici economici
presentando dei progetti specifici». Granzotto di progetti possibili ne ha
indicati alcuni: innanzitutto il completamento del percorso realizzato dalla
comunità montana Agordina sui luoghi della Prima guerra mondiale, nel quale si
possono inserire i Forti di Col Vaccher, Monte Ricco, Batteria Castello e le
fortificazioni di Pian dell’Antro, a Venas. Collateralmente al completamento del
percorso della memoria, potrebbe nascere una valorizzazione dell’intero
territorio, riorganizzando l’accoglienza e la ristorazione, con la previsione di
vendita di prodotti tipici. Alla nascita del nuovo parco sono interessati in
primis la Cm Centro Cadore, che opererebbe da capofila, la Provincia di Belluno,
i comuni di Pieve e Valle e forse anche Perarolo, che però attualmente ha
qualche riserva. (v.d.)
il Corriere delle Alpi — 04 marzo 2007 pagina 14
sezione: CRONACA
Vanno all' asta sei immobili militari dismessi
BELLUNO. Gli enti locali bellunesi prenotano l’acquisto di sei immobili militari
dismessi: a Belluno le ex caserme Jacopo Tasso e Fantuzzi; a Pieve di Cadore il
deposito delle munizioni di monte Zucco; a Santo Stefano l’ex casermetta
difensiva di passo Oregone e il poligono di tiro Malpasso; a Valle l’ex forte di
Pian dell’Antro. Sono questi gli edifici e le aree interessati dalla prima
tranche del decreto Visco, che mercoledì ha dato il via libera definitivo per la
dismissione di 201 siti del ministero della Difesa.
Le amministrazioni comunali bellunesi si dicono interessate a trattare
l’acquisto, anche se c’è chi storce il naso. «Presenterò un’interrogazione in
Provincia contro il Governo», spiega Matteo Toscani, «non è possibile che a noi
Comuni bellunesi, già svantaggiati rispetto ai nostri vicini, venga proposta la
vendita degli immobili, quando non più di una settimana fa gli stessi sono stati
regalati alla Regione Friuli Venezia Giulia. Basta con i privilegi verso le
Regioni autonome. Si parla di specificità della nostra provincia, ma nessuno da
Roma ha ancora dato segnali in proposito. Fanno gli splendidi con i ricchi, poi
vengono a batter cassa da noi. E’ un’ingiustizia». E come dargli torto?
L’assessore comunale bellunese Gianni Serragiotto si sintonizza sulla stessa
lunghezza d’onda di Toscani, ma la sua tirata d’orecchie va a colpire anche i
parlamentari bellunesi: «Da tempo ci siamo mossi, grazie anche all’appoggio
della Prefettura e dei parlamentari, per vedere di avere qualche sconto. Abbiamo
chiesto che una delle due caserme arrivi gratuitamente al Comune. Staremo a
vedere, anche perché sulla Tasso è ancora in piedi il contenzioso con il
ministero. Anche in questo caso, però, è venuto a mancare il gioco di squadra da
parte dei nostri politici a Roma. Invece di stare sempre a chiedere la luna,
come il ministero per la Montagna, forse avrebbero potuto pensare a qualcosa di
più concreto. Il risultato? In Friuli le caserme arrivano gratis, noi dovremo
pagarle».
Il provvedimento che è stato preso mercoledì rientra nelle disposizioni previste
dalla legge Finanziaria 2007 ed è il primo di quattro decreti che sanciranno il
passaggio di immobili dismessi dagli usi militari.
L’operazione di trasferimento avrà termine entro luglio 2008, quando l’ultimo
decreto completerà l’individuazione dei beni da trasferire all’Agenzia del
Demanio, per un valore complessivo di 4 miliardi di euro.
L’accordo siglato mercoledì tra l’agenzia e il ministero della Difesa, definisce
la consistenza del primo “pacchetto” di beni ex militari non più utili ai fini
istituzionali.
Spesso ubicati nel centro delle principali città italiane, gli immobili dismessi
dalla Difesa (caserme, arsenali, poligoni, terreni) rappresentano un’opportunità
di sviluppo e di innovazione nella gestione del patrimonio immobiliare pubblico
e nella pianificazione degli assetti territoriali.
«I prossimi passi sono quelli di aprire tavoli permanenti di confronto con l’Anci,
la conferenza Stato-Regioni e con tutti i singoli Comuni interessati, per
valutare i loro fabbisogni e definire insieme un piano di riconversione»,
spiegano i responsabili dell’Agenzia del demanio.
La firma del decreto è stata accolta con favore dagli enti locali bellunesi
direttamente interessati dai processi di valorizzazione degli immobili ex
militari.
Una cosa è già stata appurata: Comuni e Comunità montane avranno una sorta di
prelazione sugli edifici messi in vendita rispetto ai privati. E non sembrano
volersela fare sfuggire.- Francesco Saltini
il Corriere delle Alpi — 04 marzo 2007 pagina 29
sezione: PROVINCIA
Un futuro di rilancio per il forte di Pian dell' Antro
VALLE. E’ notizia recente che anche il forte di Pian dell’Antro, che dalle falde
del Col Sant’Anna (sopra Venas di Cadore) domina la strada d’Alemagna, rientra
tra i 201 ex immobili militari che, ceduti dal ministero della difesa al
demanio, potranno essere alienati o dati in gestione ai privati per un periodo
di 50 anni.
Il relativo decreto, in corso di registrazione alla Corte dei Conti, permetterà
nei prossimi mesi di far diventare il tutto patrimonio dello Stato (con
consistenti entrate per le casse dell’erario) e contemporaneamente di attivare
finalmente progetti concreti di riutilizzo e valorizzazione.
Per il nostro forte, dovrebbero quindi aprirsi interessanti prospettive, in
relazione soprattutto alle felici iniziative già fiorite negli ultimi anni in
Valboite nel contesto del recupero dei manufatti e delle memorie della Grande
Guerra, a cominciare dal forte di monte Rite sopra Cibiana, per finire con i
progetti Interreg realizzati sul Becco di Cuzze sopra Vodo di Cadore.
Una speranza che riposa proprio sull’importanza storica dell’imponente
manufatto, che a ragione può invocare il diritto di primogenitura nel settore
della costruzione dei forti corazzati in Valboite e che costituisce dunque un
“unicum” per lo studio della strategia fortificatoria d’inizio ‘900, ma non
solo.
Qui infatti, alla cosiddetta “chiusa di Venas”, fin dal medioevo il Cadore
organizzò la sua difesa, elaborando via via nel corso dei secoli apparati
difensivi di crescente impegno e ambizione, al fine di sbarrare gli arrivi dei
nemici provenienti dalla conca di Cortina.
Basterebbe l’epopea di Calvi a nobilitare una tradizione che ha sempre voluto su
queste pendici, arroccate sulla stretta montana e dominanti la strada, il primo
vero presidio del Centro Cadore, la sentinella avanzata del castello di
Montericco.
Lo si raggiunge imboccando la stradina che dall’Alemagna porta alla frazione di
Seppiane e arrivando, dopo pochi tornanti, a quota 1050 metri. Qui, dall’ex
arteria militare, che prosegue fino a Col Sant’Anna e al Pian di Sadorno, una
carrabile di servizio porta in poche decine di metri al piazzale d’armi di una
grande caserma scavata nella roccia, dalla facciata ambiziosa e sorprendente,
lunga ben 60 metri.
Siamo sul fronte di gola del forte di Pian dell’Antro, iniziato nel 1910 e
voluto per operare insieme alla “tagliata” sita poco più in basso, sulla strada
statale.
In effetti, il forte di monte Rite, costruito a partire dal 1911 a ben 2183
metri d’altitudine (sulla riva opposta del fiume), non fu che il tempestivo
completamento, quale “opera alta”, del forte di Pian dell’Antro, giudicato
subito troppo basso e vulnerabile dalle alture circostanti. Si concepì dunque
una moderna sinergia tra forte alto e basso, con l’obiettivo di stendere
un’insuperabile catena di sbarramento sulla valle, in grado di arrestare
qualsiasi penetrazione nemica che avesse tentato di incunearsi verso Tai o di
cercare vie alternative attraverso Forcella Cibiana o Forcella Chiandolada.
Ma se oggi in molti salgono al Rite attratti dalla moderna (ma in qualche modo
alterata) struttura voluta da Messner, ben pochi visitatori si fermano a
respirare le atmosfere decadenti ma originali di questo forte rimasto tale e
quale la distruzione austriaca l’ha ridotto 90 anni fa.
Attraversato il cortile, si notano sul fianco destro dell’edificio gli ingressi
alle gallerie d’accesso ai depositi di esplosivo, mentre nella caserma vera e
propria si può entrare per due porte principali, una a destra e una a sinistra
della facciata.
E’ possibile riconoscere ancor oggi la destinazione dei vari locali al primo e
secondo piano (cucina, posto di guardia, cabina elettrica, servizi igienici...),
ma forse la cosa più interessante è percorrere il lungo corridoio che, scavato
nella viva roccia e piegato verso ovest, va a congiungersi con un’altra galleria
proveniente dai depositi, portando infine alla batteria corazzata. Quello che
una volta era il “cuore” del forte, la grande piattaforma di calcestruzzo (metri
56 x 20 circa), nella quale riposavano le quattro grandi cupole corazzate
Armstrong per cannoni da 149 A, versa oggi in penosa fatiscenza.
Tra le lastre deflagrate, si riconoscono solo i grandi crateri che recano ancora
l’impronta dell’acciaio che li occupava, mentre il lungo corridoio retrostante i
pozzi, con le relative riservette, appare ingombro di macerie.
Ma è la zona dei depositi sotterranei ad affascinare più di tutto. Con l’aiuto
di una torcia, si accede facilmente ai grandi stanzoni adibiti a depositi di
granate e di balistite, ma pure cercare nel bosco i lunghi camminamenti, le
trincee, i corpi di guardia, le cannoniere costituisce oggi un’attività
coinvolgente e sorprendente, alla luce dello sforzo allora profuso per
realizzare una vera cittadella fortificata, concepita per resistere ad ogni
possibile invasione nemica.
Invece, Pian dell’antro fu abbandonato troppo presto, dopo aver sparato poco o
male (si pensi alle conseguenze su Vodo) ed essere stato solo parzialmente
sabotato, dispensando le sue dotazioni in parte alla popolazione subito accorsa,
in parte al sopravveniente invasore austriaco.
Questo volle distruggerlo almeno nella batteria corazzata, fissando in pratica
quell’istantanea di distruzione che oggi abbiamo di fronte agli occhi.
Paradossale dunque ancora una volta il destino della fortificazione cadorina.
Nata all’insegna dell’ambizione politica e militare, nonché della lungimiranza
strategica e tecnica, è ridotta oggi a lampante esempio di inanità.
Ma, questo, oltre a non togliere alcunché all’interesse del forte come
eccezionale documento storico, costituisce in definitiva un pregio in più,
perché anche i paradossi possono diventare attrattiva culturale e turistica.-
Walter Musizza e Giovanni De Donà
il Corriere delle Alpi — 23 maggio 2007 pagina 16
sezione: CRONACA
«Opportunità dalle caserme dismesse»
BELLUNO. La Tasso e al Fantuzzi dalla Difesa al Demanio. Dopo l’incontro di
sabato scorso con il sottosegretario alla Difesa Marco Verzaschi dedicato alle
caserme dismesse, interviene il capolista di “Belluno Popolare” Giovanni De
Lorenzi, per sottolineare che «tra i 201 immobili di proprietà della Difesa
passati recentemente all’Agenzia del Demanio vi sono la caserma Jacopo Tasso e
la caserma Fantuzzi di Belluno, oltre al deposito munizioni di Pieve di Cadore,
l’ex casermetta difensiva Passo Oregone e il poligono di tiro Malpasso di Santo
Stefano di Cadore, nonché l’ex Forte Pian dell’Antro a Valle di Cadore».
«I nuovi amministratori di Belluno potranno cimentarsi anche con questa
opportunità», aggiunge, «che permetterà una mutazione urbanistica di valenza
storica per la città di Belluno, dato che potranno essere concessi per una
durata fino a 50 anni, oltre che ceduti». (e.c.)
il Corriere delle Alpi — 24 novembre 2007 pagina 37
sezione: SPETTACOLO
Il disastro di Vodo nel 1917
La ritirata della IV Armata del generale Di Robilant dal Cadore nei frenetici
giorni seguiti a Caporetto risultò senz’altro drammatica ed inopinata, nel
contesto di un apparato militare e civile incredulo di dover abbandonare senza
propria colpa importanti posizioni finora mai cedute al nemico. In particolare
il deflusso delle nostre truppe lungo la Val Boite nella prima decade di
novembre 1917 fu laborioso e convulso, contrassegnato dall’esigenza di
raggiungere subito la pianura e nello stesso tempo di sfruttare per quanto
possibile il grande potenziale della Fortezza Cadore-Maè, che aveva voluto
disseminare una serie di postazioni per cannoni sulle alture intorno alla Chiusa
di Venas, concependole in stretta sinergia con la difesa, ritenuta insuperabile,
dei forti di Pian dell’Antro e di monte Rite. Le popolazioni di S.Vito, Vodo e
Venas scoprirono cosi, con agro stupore, che quelle stesse bocche da fuoco che
erano state volute per assicurare l’impermeabilità della propria valle a
qualsiasi offesa nemica si ritorcevano ora, per un amaro paradosso della storia,
contro le loro stesse vite, contro le proprie case. Il giorno 5 novembre, mentre
la popolazione di Vodo riceveva l’ordine di sgombero per permettere al fuoco del
Rite di contrastare l’avanzata nemica e il paese sembrava una bolgia
indescrivibile, anche per lo sfilamento in corso dei nostri reparti. Alle 13 del
giorno 6 giunsero in pazza a San Vito le avanguardie di truppe alpine austriache
e il giorno dopo questi iniziarono a requisire vacche e manzetti e a macellarli
all’istante per la fame delle nuove truppe in arrivo. La mattina di quello
stesso giorno 7, con cielo coperto e atmosfera funeraria, furono uditi i primi
colpi delle nostre artiglierie di Sadorno, Pian dell’Antro e della Chiusa di
Venas, nonché di quelle da 75 poste sulle alture di Socchiuse e Sottiera, sulla
riva destra del Boite, Poco sopra il ponte di Cibiana. I proiettili,
susseguitisi a ritmo crescente, squarciavano il cielo sopra il paese impaurito:
alle 13 il fuoco raggiunse il massimo vigore e per tre ore l’intero abitato di
San Vito dubitò della sua sopravvivenza. Alle 5 del pomeriggio i tiri parvero
concentrarsi solo sul paese di Vodo e alle 10 di sera tutto si era placato.
Tirava però un forte vento e cadeva la neve: in un’oscurità totale, dovuta alla
mancanza di energia elettrica, gli abitanti di San Vito potevano scorgere tutta
la vallata della Chiusa e il versante nord del Rite illuminati dalle fiamme che
divoravano il paese di Vodo. L’8 novembre la resistenza alla Chiusa di Venas si
era definitivamente esaurita. Erano saltati i ponti sul Rudan presso Peaio e sul
Boite lungo la strada Venas-Cibiana, ma era stato Vodo a pagare il prezzo
maggiore del nostro conato difensivo. In paese gli austriaci giunsero numerosi
la sera del 7, tanto da formare due grossi assembramenti, rispettivamente
davanti alla casa di Gregorio Gregori e davanti all’abitazione d’una famiglia
Belli. Fu alle 8, secondo il racconto del maestro Serafni, che il prete fece
suonar messa, fatto invero inconsueto e sorprendente, giacché dall’inizio della
guerra vigeva il divieto di scampanio. Probabilmente egli si sarà sentito
autorizzato a farlo dalla scomparsa del regime che tale divieto aveva posto, ma
certo l’occasione non fu propizia: i presidi dei forti di Rite e Pian dell’Antro
ed i contingenti presenti sulle alture di Sadorno, Socchiuse e Sottiera, vedendo
dall’alto quei grossi assembramenti e scambiato il suono delle campane per un
allarme, avrebbero puntato i cannoni sul paese, bombardandolo senza pietà. Le
granate colpirono dapprima la casa del Gregori e quella dei Belli, ma poi tutto
il paese rimase coinvolto dal bombardamento, durato ben 10 ore, tanto da
costringere la gente esterrefatta a riparasi sotto gli antri sulla riva sinistra
del Boite, proprio sotto il paese. Quando il bombardamento cessò (due donne
morte), tutti poterono tornare in paese, ma 43 famiglie trovarono la casa
bruciata e i loro averi volatilizzati. I punti più colpiti e danneggiati
dall’incendio furono la borgata”Chiarediego”, totalmente distrutta, e gran parte
della borgata “Rezzuò”. Ma non c’era casa che vantasse un vetro intatto e
praticamente distrutta appariva la stessa chiesa di Santa Lucia, di cui si salvò
solo il campanile e quella parte del suo patrimonio e dei suoi ricchi arredi che
il Parroco riuscì ad afferrare gettandosi tra le fiamme. Fini bruciata la pala
di Cesare Vecellio, raffigurante il trittico di Maria Vergine fra Santa Lucia e
San Gottardo. Andarono perduti anche paramenti ed arredi sacri di pregio, tra
cui una croce d’olivo che ornava il secondo altare laterale destro. - Musizza e
De Donà
il Corriere delle Alpi — 26 novembre 2008 pagina 13
sezione: CRONACA
Fondi per le caserme dismesse
BELLUNO. La Giunta regionale ha approvato ieri il secondo stralcio di interventi
per il recupero della ex caserma “Bianchin” in Cansiglio. Si tratta di opere per
sistemare il terreno e riportare lo sfalcio dei prati caratterizzati dalle
fioriture tipiche della zona, i cosiddetti “arrenantereti degradati” o “praterie
magre da fieno a bassa altitudine” individuate dal codice Natura 2000 “6510”.
Per questa operazione, proposta dagli assessori ai parchi Flavio Silvestrin e al
territorio Renzo Marangon, il governo veneto ha approvato il finanziamento di
150 mila euro a favore dell’azienda regionale Veneto Agricoltura con la quale la
Regione ha sottoscritto un’intesa per realizzare i lavori. La prima parte del
progetto, comprendente la demolizione di alcuni fabbricati e di terrapieni con
il recupero di alcune aree a pascolo per l’importo di 511mila euro, era stata
approvata il 31 dicembre 2007, anche in questo caso attraverso un atto d’intesa
tra la Regione e Veneto Agricoltura. Oscar De Bona, che siede in giunta
regionale, commenta: «Tutta l’operazione comporta sicuramente notevole impegno,
ma è di enorme importanza per l’alta qualità ambientale del luogo. Il recupero
dell’area di ben 13 ettari occupata dai resti in degrado della vecchia base
missilistica della Nato, poi caserma “Bianchin” dell’esercito italiano,
permetterà finalmente di cancellare quella bruttura nel mezzo di un pianoro ben
curato e frequentato da molti visitatori ed escursionisti». Dopo anni di iter
burocratico per la smilitarizzazione dell’area è stato possibile partire con gli
interventi di smantellamento e bonifica dell’ex “Bianchin” solo dal 7 agosto
scorso quando, presente il ministro Luca Zaia, è stata effettuata la consegna
dell’immobile a Veneto Agricoltura. La base del Pian Cansiglio faceva parte del
59. Gruppo IT del 16. Stormo IT della 1. Brigata aerea dell’Aeronautica militare
italiana, collegata a una caserma a Vittorio Veneto, con un’area di lancio dei
missili sulla Piana e una di controllo radar sul monte Pizzoc, che è stata
demolita qualche anno fa. Nella stessa seduta, la giunta di Palazzo Balbi ha
approvato i contributi in conto capitale da erogare a favore degli enti locali
che intendono acquisire e utilizzare immobili dimessi dal ministero della
Difesa. Sulla base delle richieste, in provincia di Belluno sono stati assegnati
al Comune di Agordo 250 mila per l’acquisto del Poligono di tiro, a quello di di
Valle di Cadore 50 mila per l’acquisizione del forte Pian dell’Antro e a quello
di Auronzo di Cadore 30 mila per acquistare il complesso della caserma di Val de
l’Aga.
il Corriere delle Alpi — 15 gennaio 2009 pagina 25
sezione: PROVINCIA
Valle e Auronzo: finanziamenti per i beni militari dismessi
AURONZO. Contributi veneziani a Valle (50mila euro) e ad Auronzo (30mila) per
l’acquisto di beni militari dimessi dal ministero della Difesa, che saranno
utilizzati dai due enti locali per usi sociali. Il Comune di Valle ha fatto
richiesta di contributo perché intende acquistare il “Forte pian dell’Antro”,
che si trova lungo la ex strada militare “Forti Venas”: il contributo regionale
concorrerà al 50% della spesa, visto che ministero ha valutato la struttura
100mila euro. Al Comune di Auronzo, invece, il contributo in conto capitale di
30mila euro servirà per l’acquisizione della caserma Val de l’Aga, una vecchia
struttura che si trova ai piedi delle Tre cime di Lavaredo e che oggi si
raggiunge solo attraverso una mulattiera. Secondo il progetto di massima, la
caserma dovrebbe essere recuperata e utilizzata per fini turistici: forse, ma
tutto è ancora in alto mare, potrebbe essere trasformata in un rifugio alpino.
Auronzo e Valle sono gli unici due enti locali cadorini che hanno fatto
richiesta di contributo, insieme ad Agordo, che ha richiesto un contributo per
l’acquisto del poligono di tiro. In Cadore sono ancora molti gli edifici dimessi
dal ministero della Difesa che potrebbero essere riutilizzati per il bene della
comunità civile. Solo a Pieve di Cadore ci sono vari edifici, specialmente nella
zona della Madoneta e di monte Zucco, che erano adibiti a depositi militari e
che ora sono abbandonati o chiusi. Quello della Madoneta è l’esempio più
eclatante che, secondo alcune voci provenienti dall’ambiente militare, starebbe
per risolversi in modo positivo in favore della comunità. Come il Corriere ha
riportato circa due anni fa, mentre gli hangar che ospitavano il materiale e i
mezzi militari della caserma Calvi sono vuoti, proprio all’interno del recinto
del deposito ci sono i mezzi della Protezione civile che marciscono sotto le
intemperie. Ora, sembra che le strutture vuote possano essere occupate da tali
mezzi: ma sinora l’unico movimento che è stato notato è quello fatto dal Comune
di Pieve per lo sgombero della neve. (v.d.)