PIAN DELL'ANTRO

Provincia di Belluno

                                  

Rassegna stampa dedicata

 

il Corriere delle Alpi — 23 novembre 2003 pagina 37 sezione: SPETTACOLO

 

Una strada di guerra e di pace


Era nata come ideale via di comunicazione tra le valli del Boite e del Maè, ma forse nessuno se ne ricordava. Ora finalmente l’appello dell’Uniteis per bocca di Fausto Bortolot sembra trovare ascolto, richiamando la valenza della strada della Chiandolada nell’economia e nel turismo di Zoppè e di Vodo, ovvero dei comuni più interessati ad un buon collegamento alle falde del Pelmo, ad un’alternativa attraente e conveniente tra Cadore e Zoldano. Questo esile ma tenace “trait d’union” è già tornato in questi ultimi anni una via di comunicazione agevole e di tutto rispetto, con l’ultimazione di importanti lavori di allargamento e consolidamento, in particolare nel tratto “Coloi-Bus de Ciandolada”. Ma per renderla davvero alternativa in tutti i sensi, bisognerebbe richiamare un po’ dell’organizzazione teutonica di 100 anni fa, quando di questa mulattiera, tanto importante per l’economia e la cultura cadorina, sì occuparono, più in teoria che in pratica, la strategia e la guerra e, caso curioso, il difensore come l’invasore, il Regno d’Italia come l’Impero Austro-ungarico. Allorchè il Regno d’Italia, nel 1866, riuscì ad annettersi anche questa parte del Veneto, sia l’itinerario da Vodo a Zoppè, sia quello da Venas a Fornesighe, potevano dirsi ben povere cose. Fu proprio questa situazione di generale precarietà di tutte le comunicazioni viarie a sud-est del Pelmo a solleticare le diverse esigenze ed aspettative dello Stato Maggiore austriaco ed italiano, paradossalmente volti entrambi a sanare un “gap” storico e civile in nome di una spietata e perversa logica di difesa ed offesa. Vedeva così la luce a Vienna, nel 1895, un accurato e singolare studio dello Stato Maggiore austriaco, relativo alle possibilità di aggiramento del campo trincerato di Pieve e della stretta di Venas. I nostri alleati-nemici, forti di quella conoscenza topografica derivata loro dal lavoro svolto dai propri mappatori prima del 1866, identificarono due possibilità in tal senso, inerenti rispettivamente la strada di Forcella Chiandolada e quella di Forcella Cibiana. Con acribia davvero teutonica essi divisero i due percorsi in segmenti ben distinti, vagliando caso per caso caratteristiche tecniche e preventivi di lavoro necessari per apportare tutte le migliorie ritenute indispensabili per il transito delle colonne e delle salmerie. Il percorso Vodo-Forcella Chiandolada-Forno di Zoldo fu selezionato in 9 segmenti, analizzati e classificati secondo caratteristiche, larghezza, lunghezza, pendenza, condizioni e soprattutto giornate di lavoro ed attrezzature necessarie per renderli atti ai convogli militari. La strada, secondo questi calcoli, necessitava di vari lavori quantificati in 12.070 unità lavorative giornaliere. Tale esame fu condotto, con gli stessi criteri e classifiche, anche per la strada di forcella Cibiana, portando alla conclusione che per un suo adeguamento bastavano 6980 unità lavorative giornaliere, poco più della metà della strada della Chiandolada. Gli austriaci pensavano comunque di poter concludere tutti i lavori entro 16 giorni al massimo, impiegando in zona circa 1000 operai, dotati di tutti gli attrezzi atti allo scopo. Da parte italiana si continuò a lungo ad essere indecisi sulle due ipotesi di strada, in quanto la scelta era subordinata all’individuazione di un’opera fortificatoria in grado di fermare una penetrazione nemica. E quando, dopo lunghe diatribe, si decise per il forte di Pian dell’Antro a Venas e il Monte Rite, è chiaro che si provvide a migliorare il tronco Venas-Cibiana anziché quello di Vodo-Zoppè. Insomma, con una sorta di agra ironia, si potrebbe osservare che per avere oggi un migliore collegamento verso la Chiandolada avrebbero dovuto lavorarci i nostri nemici dopo Caporetto. Ma non lo fecero semplicemente perché non ce ne fu bisogno: la strada era libera fino alla pianura e se aggiramenti dovevano essere fatti, questi erano compito di Rommel, ma dall’altra parte del Piave, verso la Val Cellina. - Walter Musizza e Giovanni De Donà

il Corriere delle Alpi — 05 febbraio 2004 pagina 27 sezione: PROVINCIA

 

Nuova vita agli antichi forti

CADORE. E’ noto che la provincia di Belluno rientra in molti programmi Interreg III A (2000-06) avviati dalla Comunità europea per promuovere lo sviluppo delle regioni transfrontaliere. Uno di essi mira a valorizzare il patrimonio storico culturale lasciato dagli eventi della Grande Guerra. Tale progetto coinvolge i territori delle Comunità montane di Agordino, Centro Cadore e Longaronese-Zoldano, sviluppando due linee d’intervento. La prima riguarda la linea del fronte Auronzo - Cortina - Dobbiamo - Livinnalongo - Rocca Pietore - Colle S.Lucia; la seconda interessa la cosiddetta Fortezza Cadore Maè e tutti gli apprestamenti della cosiddetta “linea gialla”, linea di massima resistenza potenziata e presidiata fino ai drammatici giorni del dopo-Caporetto. Interessato a questo secondo settore è soprattutto il Cadore, con i suoi forti corazzati d’alta quota (Vidal, Tudaio, Col Piccolo, Rite, Miaron, Pian dell’Antro). Oltre alle azioni di recupero, sono previste iniziative promozionali (visite, guide, articoli, dépliants...), la raccolta e traduzione di documenti provenienti dagli archivi italiani e austriaci e l’allestimento di mostre itineranti nelle scuole. Lo studio dell’architetto Ivano Alfarè, sulla base anche degli studi di un Comitato scientifico guidato da Mario Fornaro, ha presentato i progetti esecutivi per le azioni di recupero ad Auronzo, Lorenzago e Vigo. Pochi giorni fa ha visto la luce l’ipotesi di recupero e valorizzazione per il territorio del Pian dei Buoi, dove esistono notevoli manufatti e siti risalenti alla Grande Guerra, spesso lontani tra loro e non adeguatamente segnalati, per cui è stato anzitutto importante privilegiare alcuni interventi, permettendo la futura gestione di percorsi escursionistici. Per il Pian dei Buoi, detto un tempo altopiano di Sovergna, è stata ipotizzata un’azione di manutenzione del fondo della strada d’accesso al forte da Sora Crepa, con il rifacimento delle canalette in pietrame, la sistemazione del fondo, la ricostruzione di alcuni tratti di muro e la sistemazione della piazzola con fontana nell’area della caserma “Montiglio”. Si provvederà inoltre alla sistemazione del tracciato del sentiero di Val di Porte, aperto da cacciatori volontari di Lozzo, e alla ricostruzione del ricovero-osservatorio di Col Cervera, erede di una delle prime casermette degli Alpini e a suo tempo in collegamento ottico con i forti di Pieve e Tai. L’area del forte di Col Vidal (attualmente ancora del Demanio) sarà interessato invece da un’azione di pulitura dalla vegetazione, ormai debordante tra i ruderi, e dall’installazione di panchine e tavoli per i turisti. Per tutti gli interventi, saranno usati materiali tradizionali e locali, con un’attenzione specifica ai prodotti e agli elementi in uso all’epoca della costruzione originaria, e saranno posizionati indicatori segnavia e pannelli descrittori nei luoghi più interessanti. Anche i materiali di cava necessari per la creazione del fondo dei sentieri e delle piazzole saranno ricavati in cave di zona, mentre il legno per gli elementi di arredo sarà reperito sul posto con i tagli resi necessari dalla pulizia dei sentieri. Dunque, anche per Col Vidal, come avvenuto sul monte Tudaio e sul Rite, sembra aprirsi una nuova pagina, a quasi 90 anni dalle esplosioni con cui l’esercito austriaco in ritirata volle lasciare questo poderoso sistema di forti, vanto di un Regno d’Italia che, anche con queste realizzazioni, aveva perseguito la sua ambiziosa politica di potenza emergente. Tutto questo nello spirito della legge del 7 marzo 2001 78 relativa alla tutela del patrimonio storico della I Guerra mondiale, ma soprattutto nella consapevolezza, da parte della popolazione locale, di salvaguardare una pagina importante di storia nazionale, di enormi potenzialità culturali e turistiche. Walter Musizza Giovanni De Donà

il Corriere delle Alpi — 14 ottobre 2004 pagina 33 sezione: SPETTACOLO

 

Vodo presenta la «sua» Grande Guerra

OGGI nella Sala della Regola di Vodo di Cadore sarà inaugurata la mostra “I luoghi della Grande Guerra in provincia di Belluno”, realizzata nel contesto del Progetto Interreg III Italia-Austria 2000-06. L’esposizione, aperta fino al 27 ottobre, oltre a un’esauriente panoramica degli aspetti del primo conflitto mondiale tra Agordino, Zoldano e Cadore, presenterà una speciale sezione dedicata agli interventi di recupero e valorizzazione finora effettuati nel territorio di Vodo, in particolare sulla riva destra del Boite. Essa permetterà tra l’altro di fare il punto sull’ambizioso programma già avviato dalla precedente amministrazione guidata da Domenico Belfi e teso a ripristinare un notevole patrimonio di trincee, postazioni, strade ed osservatori di grande valenza strategica e tattica, in grado di offrirsi nei prossimi anni come interessante meta turistica. Si tratta di una serie di realizzazioni volute nei primi anni del ’900 e rientranti nel dogma, allora imperante, di una linea di massima difesa, presunta insuperabile, appoggiata ai forti corazzati e distesa dalle Marmarole a Casera Razzo, da Forcella Scodavacca al Rite. Durante il conflitto tale “linea difensiva di massimo arretramento o estrema resistenza”, detta convenzionalmente “Linea Gialla”, aveva lo scopo di sostenere la difesa in caso di trasferimento di unità in altri settori e nel settore della IV Armata si sviluppava tra monte Penna, Rite, Antelao, Marmarole, Tudaio e Casera Razzo, località quest’ultima in cui veniva a collegarsi con la linea arretrata di difesa a oltranza della Zona Carnia. Di particolare importanza risultava l’andamento di tale linea sulla riva destra del Boite, dove doveva assicurare il collegamento con gli impianti dello Zoldano, facendo praticamente da cerniera tra le opere della Fortezza Cadore-Maè e quelle dell’Agordino e della Val Maè. Le posizioni, sussidiate da strade e ricoveri, avevano anzitutto il compito di raccordare le fortificazioni di Rite, Col Vidal, Pian dell’Antro e Tudaio con quelle dello Sbarramento Cordevole, in particolare dello Spiz Zuèl (m 2033) e del Col de Salèra (m 1629), che attraverso Forcella Chiandolada andavano a rannodarsi con le difese approntate a Val di Cuze e sul Becco di Cuze (m 1724), sopra Vodo di Cadore. La costruzione del poderoso impianto corazzato di Rite sopra Fordella Cibiana (m. 2183), ultimato nel 1915, impose inoltre l’adozione di numerose difese complementari sulle alture sottostanti, una rete elaborata di trincee, postazioni e mulattiere di collegamento, con postazioni per mitragliatrici e artiglieria da campagna. Vodo dunque ha voluto riscoprire e valorizzare un apparato difensivo articolato e in gran parte sconosciuto, un autentico patrimonio storico che rischiava di essere fagocitato dalla vegetazione. Proprio perché le posizioni erano solide e in grado di alimentare almeno un conato di resistenza, qui la IV Armata di Robilant cercò di ritardare in qualche modo la ficcante penetrazione austriaca lungo il Boite, resistenza che finì col costare a Vodo l’8 novembre 1917 la distruzione pressoché totale delle sue case, nonché mille traversie alla sua terrorizzata popolazione. Particolare attenzione nello studio e ripristino è stata dedicata alla zona del Becco di Cuze, dove si trovano diverse gallerie e depositi per artiglieria, e sulla linea Crepe di Serla-Penna (m 1700-1900), dove correva in cresta una attrezzata linea difensiva per la fanteria. Di particolare interesse poi nella zona di Val Cason un bellissimo acquedotto, recentemente ripulito e valorizzato dal Comune di Vodo con precisa segnaletica e utilizzato probabilmente per fornire d’acqua i numerosi attendamenti militari organizzati nella zona di Casera Cercenà (m 1532) durante il conflitto. L’apertura di questi nuovi percorsi storici, sotto la direzione dell’architetto Alfarè Lovo e del comitato scientifico appositamente incaricato, permetterà a molti appassionati un’attenta rivisitazione delle logiche strategiche e tattiche che presiedettero alla concezione e costruzione di queste difese e renderà possibile una fruizione matura dell’intero comprensorio. E ci si attende pure da tutto ciò un adeguato rilancio del rifugio Talamini presso Forcella Chiandolada, che dopo la parentesi buia dei recenti atti vandalici che hanno decretato il suo sequestro, aspira legittimamente a catalizzare nuovi flussi di escursionisti evoluti e specialmente attenti al binomio natura e storia. - Walter Musizza e Giovanni De Donà

il Corriere delle Alpi — 12 novembre 2004 pagina 29 sezione: PROVINCIA

 

A Valle il recupero dell'Antro

VALLE. Il Percorso della memoria, voluto dall’assessore regionale al turismo Floriano Prà, avrà una tappa anche nel comune di Valle. In questi giorni sono iniziati i lavori di recupero della zona dell’ex forte di Pian dell’Antro. Costruito dagli italiani nel 1910-1914, il forte fa parte del ridotto cadorino detto anche fortezza Cadore-Maè e della fortezza Cordevole, costruita attorno ad Agordo con l’intento di contenere un eventuale attacco austriaco. I lavori di recupero, finanziati dal comunale di Valle, dalla comunità montana Centro Cadore e dalla Regione, sono stati appaltati alla cooperativa sociale «La Via». La prima fase di lavori consiste nel taglio degli alberi all’interno del forte e nelle sue adiacenze, nella posa delle griglie divelte all’interno della struttura e il ripristino delle staccionate. Inoltre sarà montato un pannello informativo sul quale sarà riportata la storia del forte e della fortezza Cadore-Maè. Sarà anche rimessa in ordine la strada d’accesso. La parte del forte nella quale erano sistemati i cannoni è stata completamente distrutta. Sono invece rimaste intatte le postazioni. L’amministrazione comunale di Valle, con il recupero di queste strutture, intende portare anche sul suo territorio il grande circuito della Grande Guerra, che sembra essere uno dei business turistici dell’avvenire. (v.d.)

il Corriere delle Alpi — 13 novembre 2004 pagina 27 sezione: PROVINCIA

 

Restauri nella fortezza dimenticata

CIBIANA. E’ a poche centinaia di metri dalla strada d’Alemagna, ma le lunghe code di automobilisti neanche si accorgono del suo incombere sulla stretta di Venas. Eppure costituì 90 anni fa una degli impianti più moderni della Fortezza Cadore-Maè, opera collegata al forte del Rite, di cui era considerato a buon diritto il fratello maggiore. E’ il forte di Pian dell’Antro, sulle falde meridionali del Col S.Anna, poco prima del bivio da cui parte la strada che porta sulla riva opposta del Boite e quindi a Cibiana. Dopo 90 anni finalmente, nel contesto dei nuovi interessi fioriti attorno alle opere della Grande Guerra, è possibile fare qualcosa per fermarne il degrado. Grazie a circa 25.000 euro stanziati dal Comune di Valle, dalla Comunità montana Centro Cadore e dalla Regione, si eliminerà la vegetazione entro il perimetro fortificato collocando staccionate e griglie. Ci sarà anche un pannello informativo, perché in effetti qui la storia ha molto da raccontare. Alla “chiusa di Venas”, infatti, fin dal medioevo il Cadore organizzò la sua difesa, elaborando via via nel corso dei secoli apparati difensivi di crescente impegno e ambizione, al fine di sbarrare le provenienze nemiche da Cortina. Il forte, iniziato nel 1910 e voluto per operare insieme alla “tagliata” situata poco più in basso, sulla strada d’Alemagna, sorge a quota 1050 metri ed è raggiungibile dall’ex arteria militare che sale fino a Col S. Anna e al Pian di Sadorno grazie ad una stradina di servizio che in poche decine di metri porta al piazzale d’armi di una grande caserma scavata nella roccia, lunga ben 60 metri, che costituisce il fronte di gola dell’opera. Il forte di monte Rite, costruito a partire dal 1911 a 2183 metri d’altitudine, sulla riva opposta del fiume, non fu che il tempestivo completamento, quale “opera alta”, del forte di Pian dell’Antro, giudicato subito troppo basso e vulnerabile dalle alture circostanti. Ma se oggi in molti salgono al Rite attratti dalla moderna (ma in qualche modo alterata) struttura voluta da Messner, ben pochi visitatori si fermano a respirare le atmosfere decadenti, ma originali di questo forte rimasto come la distruzione austriaca l’ha ridotto 80 anni fa. Attraversato il cortile, si notano sul fianco destro dell’edificio gli ingressi alle gallerie d’accesso ai depositi di esplosivo, mentre nella caserma vera e propria si può entrare per due porte principali, una a destra e una a sinistra della facciata. E’ possibile riconoscere ancor oggi la destinazione dei vari locali al primo e secondo piano (cucina, posto di guardia, cabina elettrica, servizi igienici...), ma forse la cosa più interessante è percorrere il lungo corridoio che, scavato nella viva roccia e piegato verso ovest, va a congiungersi con un’altra galleria proveniente dai depositi, portando infine alla batteria corazzata. Quello che una volta era il “cuore” del forte, la grande piattaforma di calcestruzzo (m 56 x 20 circa), nella quale riposavano le 4 grandi cupole corazzate Armstrong per cannoni da 149 A, versa oggi in penosa fatiscenza. Tra le lastre deflagrate, si riconoscono solo i grandi crateri che recano ancora l’impronta dell’acciaio che li occupava, mentre il lungo corridoio retrostante i pozzi, ingombro di macerie, è rimasto miracolosamente in piedi nonostante l’evidente spostamento prodotto dall’esplosione interna. Ma è la zona dei depositi sotterranei ad affascinare più di tutto, con gli stanzoni adibiti a depositi di granate e di balistite, nonché a laboratori, dai quali, con un percorso su rotaia, le munizioni venivano portate all’elevatore, che provvedeva al loro inoltro alla batteria soprastante. Trincee, corpi di guardia, strade di servizio, piazzole per piccoli calibri, muri di cinta con feritoie e un osservatorio blindato completano il quadro di questa cittadina fortificata, concepita come imprendibile e capace di resistere per settimane ad ogni possibile invasione nemica. In questi depositi, furono stipate enormi quantità di materiali e viveri provenienti dal fronte negli amletici giorni del dopo Caporetto, quando si sperava ancora di difendere il Cadore e di sfruttare il grande patrimonio di fuoco dei suoi forti. Invece, Pian dell’antro, come il Tudaio, il Rite e il Vidal, fu abbandonato dopo aver sparato poco o male (si pensi alle conseguenze su Vodo) ed essere stato solo parzialmente sabotato, dispensando le sue dotazioni in parte alla popolazione subito accorsa, in parte al sopravveniente e dilagante invasore austriaco. Questo volle distruggerlo almeno nella parte più importante, ovvero nella batteria corazzata, fissando in pratica quell’istantanea che oggi noi abbiamo di fronte agli occhi. - Walter Musizza e Giovanni De Donà

il Corriere delle Alpi — 28 gennaio 2005 pagina 27 sezione: PROVINCIA

 

Il forte sul Rite spegne le prime 90 candeline

CIBIANA. Il moderno museo di Messner oggi è ospitato in una poderosa struttura bellica ultimata nei primi mesi del 1915. Forse sarà colpa delle molte suggestioni assicurate dalle collezioni storiche ed artistiche di Reinhold Messner, forse sarà per il panorama mozzafiato che spalanca ai tuoi piedi tutta la Val Boite parlandoti solo di bellezza e pace, ma certo la vetta del monte Rite non sembra mettere oggi al primo posto la guerra e le sue esigenze strategiche. Eppure il bel museo erge le sue avveniristiche strutture in acciaio e cristallo proprio su quella che fu la batteria di un poderoso forte corazzato, ultimato giusto 90 anni fa, nei primi mesi del 1915, e considerato giustamente l’ultima e più moderna opera della Fortezza Cadore-Maè. Esso venne infatti costruito dal Genio militare italiano a quota m 2183 per sbarrare le provenienze austriache dalla Val Boite e dallo Zoldano e per operare in stretta sinergia con l’ “opera bassa” di Pian dell’Antro, sull’opposto versante della valle. Fu il capo di Stato Maggiore, generale Pollio, in una sua visita in Cadore nel 1910, a sostenere l’ipotesi di un forte sul Rite, tanto da incaricare il Genio di studiare il tracciato e il costo di una carrareccia dalla Val Boite alla cima, nonché di un appostamento di artiglieria di medio calibro sulla cima. Nella primavera del 1912 il comando del V Corpo d’Armata trasmise il progetto di massima per l’opera e il Comune di Cibiana, tramite una convenzione con l’Amministrazione Militare, cedette gratis tutto il terreno di sua proprietà occorrente alla costruzione dell’intera arteria e dell’opera fortificata, il sedime per i ricoveri e il legname necessario. I lavori sulla cima subirono peraltro notevoli ritardi, che portarono l’intero complesso a presentarsi impreparato alla guerra. La strada, che nel primo tratto, da Venas a Cibiana, costituì un notevole vantaggio per la popolazione civile, essendo in pratica il primo vero accesso al paese delle chiavi, conduceva a Forcella Cibiana e poi alla vetta del monte, fino al piazzale della grande caserma che, lunga più di 60 metri ed alta più di 7, era organizzata su due piani, per un totale di 18 vani. Un ulteriore braccio della strada portava dal piazzale fino agli accessi della polveriera e dei laboratori per il confezionamento delle cariche. Il deposito della balistite e delle granate, costituito da un grande locale di circa 120 mq, veniva raggiunto tramite una galleria scavata nella roccia e lunga quasi 35 metri. La batteria consisteva in un blocco di calcestruzzo a forma di “U” rovesciata, lungo m 81 e largo circa 20, con muri perimetrali in pietra bocciardata e muratura interna in pietra. In tale struttura erano stati ricavati 4 pozzi con rampe d’accesso collegate tra loro da un corridoio d’intercomunicazione, lungo m 78 e largo 3. Lungo questo corridoio e tra i 4 pozzi erano stati ricavati ben 14 locali, adibiti a riservette, ed una grande stanza, destinata ad alloggio serventi. Nei 4 pozzi erano ospitati altrettanti cannoni da 149 A, con copertura pesante, costituita da tre piastre in acciaio al nichelio dello spessore di 140 mm. Il raggio d’azione dei cannoni, calcolato sulla base di una gittata di circa 14.000 metri, possibile con la granata monoblocco, veniva ad investire le principali direttrici d’invasione nemica, da Cortina allo Zoldano, ma pure dalle Marmarole al Cridola. Tutto un complesso di reticolati racchiudeva la linea fortificata per mettere la difesa vicina in grado di respingere eventuali colpi di mano del nemico. A quota m 2013, 200 metri sotto Forcella Deona, una grande caserma a due piani fu adibita a ricovero soldati, gendarmeria ed infermeria, mentre a nord-ovest di Monte Rite, a quota m 1793, sotto la Croce di Monte Rite, fu iniziata, ma mai ultimata, un’altra grande caserma sempre a due piani. Allo scoppio della Grande Guerra il Rite era presidiato dalla 10a cp del I Gruppo del 7º Reggimento Artiglieria da Fortezza e dalla 62a cp del X Btg Presidiarlo, per un totale di circa 300 uomini. Aveva in dotazione, oltre ai 149 in cupola, ben 4 cannoni da 70 M, 4 da 75 A, 4 da 149 G, ma durante il conflitto il forte rimase tagliato fuori dal vivo delle operazioni e venne chiamato in causa solo nei tragici giorni del dopo-Caporetto. I rilevamenti fatti da ricognitori austriaci il 4 novembre 1917 permettono di constatare come l’impianto fosse allora in perfetta efficienza, ma in corso di abbandono da parte delle truppe. Non risulta che i suoi cannoni abbiano partecipato all’azione di fuoco delle nostre difese della “Chiusa di Venas” all’arrivo degli austriaci a Vodo l’8 novembre 1917. Sulla cima furono operati limitati sabotaggi e vennero abbandonati pure i 3 pezzi da 149G su cingoli ancora rimasti in dotazione. Gli austriaci, dopo aver prelevato nell’anno dell’invasione molte munizioni del forte, lo danneggiarono esizialmente nell’ottobre 1918. Il forte divenne base di partigiani cadorini della Brigata “Calvi” nel 1944 e, rimasto da allora del tutto abbandonato, è tornato d’attualità nel giugno 2002 con l’inaugurazione del nuovo museo di Messner. Il forte è divenuto così un provvido contenitore di arte e di cimeli, ma attende ancora spazio e materiali per raccontare la “sua” incredibile, paradossale storia di perizia tecnica e di fallimento tattico.

il Corriere delle Alpi — 21 agosto 2005 pagina 27 sezione: PROVINCIA

 

Sui luoghi delle battaglie del 1848

VENAS. Ideale corrispondente dello sbarramento difensivo costituito dalla Chiusa di Lozzo o Tre Ponti è senz’altro la “Chiusa” di Venas, voluta proprio per agire in sinergia con le difese settentrionali e sbarrando cioè ogni provenienza nemica dalla conca di Cortina o dalla Forcella Cibiana. Si può dire anzi che, come la “Chiusa” di Lozzo era la sorella minore, quasi l’opera complementare e “bassa” del castello di Pieve, la nostra costituiva invece la miniatura del castello di Botestagno, la sua versione arretrata ed addirittura “casalinga”, ma spesso dimostratasi più realistica ed efficace della difesa “madre”. Se infatti l’ambizioso castello, troppo decentrato e principesco, fu quasi sempre tagliato fuori dalle iniziative teutoniche, la Chiusa di Venas espresse invece in più occasioni l’anima popolare ed indipendente dei fieri cadorini, pronti a raccogliersi ai suono della campana. Là dove la forra del Boite e le alture scoscese di Pian dell’Antro rinserrano ancora la gloriosa strada d’Alemagna, in prossimità del bivio da cui parte la strada per Cibiana e lo Zoldano, il Cadore volle (si può dire praticamente da sempre) imporre il proprio “alt” alle provenienze nemiche, disposto a sacrificare l’ “Oltrechiusa” pur di garantire la salvezza della “capitale” del suo piccolo stato, di Pieve cioè e del suo campo trincerato di secolare tradizione. Un rudimentale dispositivo militare dovette esistere probabilmente già nel X secolo, al tempo delle scorrerie degli Ungari, ma viene ufficialmente citato per la prima volta solo nel 1414, sotto il Patriarca Lodovico di Teck: esso consisteva originariamente in una tettoia o baracca di legno, fornita di alcuni ordigni difensivi e dominante la strada in prossimità della chiusa naturale esistente tra Venas e Peaio. Sappiamo inoltre che, nel gennaio del 1452, si sostituì il “trabiccolo” di Venas con un “fortilicium de muro”, cui vennero aggiunti pure dei locali per ricoverare gli inabili, e che nel 1453 il Consiglio della Comunità decise di ricorrere a tali apprestamenti difensivi per parare le minacce di numerosi vassalli tedeschi, raccoltisi a Brunico e seriamente intenzionati ad invadere quanto prima il Cadore. Nel 1508, in seguito alla caduta di Cortina, la chiusa divenne fondamentale per la strategia della Serenissima e risulta che Bartolomeo D’Alviano avesse riposto molte speranze in essa, ordinandone anzi un riassetto completo in quei decisivi primi giorni di marzo. Ma come si presentava esattamente tale apparato nel periodo d’oro della sua travagliata storia? Il Ciani così lo descriveva nella sua “Storia del popolo cadorino” del 1862: “Un insieme di torri, fra le due rocche di Pieve e di Botestagno, sorgeva sul dosso dirupato e quasi inacessibile de monti, che levansi ripidissimi dal letto del Botte, che spesso placido e lene, talvolta violento e irato, o ne lambe, o ne flagella i piedi. Era nelle patrie consuetudini che nel sospetto di ostili incursioni presidiassesi di un’eletta di milizie e che frenassero l’impeto de nemici almeno tanto quanto bastasse alle donne, ai vecchi, ai fanciulli per mettersi in salvo colle massariccie e cogli animali”. Nell’epopea di Rusecco presso di essa si sarebbe combattuto per 4 ore, ma alla fine i 70 prodi difensori, guidati da Matteo Palatini, sarebbero stati costretti, per l’avvenuta occupazione di Vinigo da parte dei nemici, ad arretrare fino a Pieve. Sempre secondo il Ciani, tale resistenza avrebbe anzi prodotto risultati di gran lunga migliori se il primo responsabile della difesa, cioè il comandante designato Barnaba de Barnabò di Domegge, non si fosse dimostrato pavido ed assolutamente impari al compito assegnateli. Un altro capitolo importante per la Chiusa di Venas fu senz’altro quello del 1848, allorché le guardie civiche si schierarono per molti giorni presso questa posizione. In particolare la resistenza si focalizzò alle porte di Venas il giorno 9 maggio, quando Calvi vi portò i suoi corpi franchi e due cannoni, sventando i tentativi di attacco e di aggiramento da parte dell’Hablitschek. Nella drammatica notte tra il 9 e il 10 i colli di Sadorno e le falde del Rite furono contrappuntati da una lunga teoria di fuochi accesi dai cadorini e la mattina seguente i corpi franchi nº 2 e 3, comandati da Taddeo Perucchi, Sebastiano Del Favero e Giuseppe Giacomelli, respinsero con successo gli attacchi nemici. Il giorno 21 gli austriaci tentarono una manovra per Forcella Piccola sventata alle porte di Calalzo. Mentre il 28 circa 300 austriaci assalirono”con razzi e cannoni” i nostri appostati a Sadorno “fulminando a ogni parte il forte” (Ronzon), ma furono respinti e costretti a ripassare il confine. Lo sbarramento dunque resistette sempre, ma alla fine risultò letteralmente vanificato dal cedimento cadorino sulla Mauria e dalla stessa rinuncia del Calvi, il 5 giugno, a protrarre ulteriormente una lotta ormai compromessa. All’inizio di questo secolo, poi, i nostri comandi militari vollero non solo costruire il grande forte di Pian dell’Antro sulle alture sovrastanti, ma organizzare anche nel 1911, una “tagliata” sulla rotabile d’Alemagna, ovvero un’interruzione stradale da armare con mitragliatrici e pezzi campali a tiro rapido. Purtroppo il destino di tali difese nei giorni del dopo-Caporetto fu lo stesso dell’intera Fortezza “Cadore-Maè”: i potenti e moderni mezzi non valsero a fermare l’avanzata austriaca, soprattutto a causa di varie deficienze personali. L’iniziativa di questa giornata è della Magnifica, nel 150º anniversario della morte dell’eroe Pier Fortunato Calvi QUESTO IL PROGRAMMA Ore 9,30. Ritrovo presso la piazzetta di Venas. Salita a piedi per circa un chilometro fino al forte di Pian dell’Antro e lezione sulla Chiusa di Venas nei secoli (1508 e 1848) e sua evoluzione nel XX secolo nel forte corazzato. Visita ai ruderi del forte. Ritorno a Venas fissato alle 12 (munirsi di pila o lampada per visitare il forte).

il Corriere delle Alpi — 20 ottobre 2006 pagina 27 sezione: PROVINCIA

 

Un parco storico a metà fra tre paesi

PIEVE DI CADORE. Dopo vent’anni, nascerà finalmente il parco storico della “Greola e della Cavallera”. Ne ha parlato lunedì scorso a Tai il sindaco di Pieve, Roberto Granzotto. «La zona sud dei comuni di Pieve e Valle e quella nord di Perarolo, in pratica quella che comprende al suo interno monte Zucco, dal 1986 è sottoposta a ben 35 strettissimi vincoli ambientali», ha spiegato Granzotto, «e questo perché in quell’anno la Regione, che con il piano territoriale regionale di coordinamento disegnò alcune aree da salvaguardare per la futura costituzione di parchi, comprese in questa perimetrazione anche gli ambiti per un parco archeologico chiamato “della Greola e della Cavallera” ». Il territorio interessato comprendeùuna parte del comune di Valle (circa il 60%), del comune di Pieve (circa il 30%) e del comune di Perarolo (il 10%): in totale una superficie di circa 500 ettari. Da allora, pur non avendo istituito il Parco, i vincoli rimasero tanto che, a causa di questi, il comune di Valle rimase senza la possibilità di edificare nella zona compresa nei confini stabiliti finchè una delibera regionale non eliminò qualche vincolo, riaprendo l’edificazione. Da allora sono passati vent’anni e il sindaco di Valle, Matteo Toscani, ha chiesto alla Regione di costituire finalmente il Parco. Un parco che dovrà essere storico, non naturalistico. Il primo passo conseguente a questa richiesta sarà la necessità di rivedere la perimetrazione, perché quella delimitata nel piano originario non è più attuale. La costituzione del nuovo Parco avrebbe dei riflessi economici non indifferenti per il territorio interessato, perché i comuni compresi nella sua perimetrazione potranno accedere a finanziamenti che altrimenti non avrebbero, comprese anche spese per progetti di urbanizzazione. Da non dimenticare, ha anche ricordato il sindaco Granzotto, «che dal 2007 al 2013 cambieranno le modalità per l’accesso ai finanziamenti europei, che abbandoneranno la logica del contributo per territorio, passando a quella “a progetto”. Attorno al progetto del Parco stanno dialogando con la Regione i comuni di Pieve e Valle, avendo ognuno degli obiettivi ben precisi da realizzare. Tra l’altro i parchi possono accedere ai benefici economici presentando dei progetti specifici». Granzotto di progetti possibili ne ha indicati alcuni: innanzitutto il completamento del percorso realizzato dalla comunità montana Agordina sui luoghi della Prima guerra mondiale, nel quale si possono inserire i Forti di Col Vaccher, Monte Ricco, Batteria Castello e le fortificazioni di Pian dell’Antro, a Venas. Collateralmente al completamento del percorso della memoria, potrebbe nascere una valorizzazione dell’intero territorio, riorganizzando l’accoglienza e la ristorazione, con la previsione di vendita di prodotti tipici. Alla nascita del nuovo parco sono interessati in primis la Cm Centro Cadore, che opererebbe da capofila, la Provincia di Belluno, i comuni di Pieve e Valle e forse anche Perarolo, che però attualmente ha qualche riserva. (v.d.)

il Corriere delle Alpi — 04 marzo 2007 pagina 14 sezione: CRONACA

 

Vanno all' asta sei immobili militari dismessi

BELLUNO. Gli enti locali bellunesi prenotano l’acquisto di sei immobili militari dismessi: a Belluno le ex caserme Jacopo Tasso e Fantuzzi; a Pieve di Cadore il deposito delle munizioni di monte Zucco; a Santo Stefano l’ex casermetta difensiva di passo Oregone e il poligono di tiro Malpasso; a Valle l’ex forte di Pian dell’Antro. Sono questi gli edifici e le aree interessati dalla prima tranche del decreto Visco, che mercoledì ha dato il via libera definitivo per la dismissione di 201 siti del ministero della Difesa.
Le amministrazioni comunali bellunesi si dicono interessate a trattare l’acquisto, anche se c’è chi storce il naso. «Presenterò un’interrogazione in Provincia contro il Governo», spiega Matteo Toscani, «non è possibile che a noi Comuni bellunesi, già svantaggiati rispetto ai nostri vicini, venga proposta la vendita degli immobili, quando non più di una settimana fa gli stessi sono stati regalati alla Regione Friuli Venezia Giulia. Basta con i privilegi verso le Regioni autonome. Si parla di specificità della nostra provincia, ma nessuno da Roma ha ancora dato segnali in proposito. Fanno gli splendidi con i ricchi, poi vengono a batter cassa da noi. E’ un’ingiustizia». E come dargli torto?
L’assessore comunale bellunese Gianni Serragiotto si sintonizza sulla stessa lunghezza d’onda di Toscani, ma la sua tirata d’orecchie va a colpire anche i parlamentari bellunesi: «Da tempo ci siamo mossi, grazie anche all’appoggio della Prefettura e dei parlamentari, per vedere di avere qualche sconto. Abbiamo chiesto che una delle due caserme arrivi gratuitamente al Comune. Staremo a vedere, anche perché sulla Tasso è ancora in piedi il contenzioso con il ministero. Anche in questo caso, però, è venuto a mancare il gioco di squadra da parte dei nostri politici a Roma. Invece di stare sempre a chiedere la luna, come il ministero per la Montagna, forse avrebbero potuto pensare a qualcosa di più concreto. Il risultato? In Friuli le caserme arrivano gratis, noi dovremo pagarle».
Il provvedimento che è stato preso mercoledì rientra nelle disposizioni previste dalla legge Finanziaria 2007 ed è il primo di quattro decreti che sanciranno il passaggio di immobili dismessi dagli usi militari.
L’operazione di trasferimento avrà termine entro luglio 2008, quando l’ultimo decreto completerà l’individuazione dei beni da trasferire all’Agenzia del Demanio, per un valore complessivo di 4 miliardi di euro.
L’accordo siglato mercoledì tra l’agenzia e il ministero della Difesa, definisce la consistenza del primo “pacchetto” di beni ex militari non più utili ai fini istituzionali.
Spesso ubicati nel centro delle principali città italiane, gli immobili dismessi dalla Difesa (caserme, arsenali, poligoni, terreni) rappresentano un’opportunità di sviluppo e di innovazione nella gestione del patrimonio immobiliare pubblico e nella pianificazione degli assetti territoriali.
«I prossimi passi sono quelli di aprire tavoli permanenti di confronto con l’Anci, la conferenza Stato-Regioni e con tutti i singoli Comuni interessati, per valutare i loro fabbisogni e definire insieme un piano di riconversione», spiegano i responsabili dell’Agenzia del demanio.
La firma del decreto è stata accolta con favore dagli enti locali bellunesi direttamente interessati dai processi di valorizzazione degli immobili ex militari.
Una cosa è già stata appurata: Comuni e Comunità montane avranno una sorta di prelazione sugli edifici messi in vendita rispetto ai privati. E non sembrano volersela fare sfuggire.- Francesco Saltini


il Corriere delle Alpi — 04 marzo 2007 pagina 29 sezione: PROVINCIA

 

Un futuro di rilancio per il forte di Pian dell' Antro

VALLE. E’ notizia recente che anche il forte di Pian dell’Antro, che dalle falde del Col Sant’Anna (sopra Venas di Cadore) domina la strada d’Alemagna, rientra tra i 201 ex immobili militari che, ceduti dal ministero della difesa al demanio, potranno essere alienati o dati in gestione ai privati per un periodo di 50 anni.
Il relativo decreto, in corso di registrazione alla Corte dei Conti, permetterà nei prossimi mesi di far diventare il tutto patrimonio dello Stato (con consistenti entrate per le casse dell’erario) e contemporaneamente di attivare finalmente progetti concreti di riutilizzo e valorizzazione.
Per il nostro forte, dovrebbero quindi aprirsi interessanti prospettive, in relazione soprattutto alle felici iniziative già fiorite negli ultimi anni in Valboite nel contesto del recupero dei manufatti e delle memorie della Grande Guerra, a cominciare dal forte di monte Rite sopra Cibiana, per finire con i progetti Interreg realizzati sul Becco di Cuzze sopra Vodo di Cadore.
Una speranza che riposa proprio sull’importanza storica dell’imponente manufatto, che a ragione può invocare il diritto di primogenitura nel settore della costruzione dei forti corazzati in Valboite e che costituisce dunque un “unicum” per lo studio della strategia fortificatoria d’inizio ‘900, ma non solo.
Qui infatti, alla cosiddetta “chiusa di Venas”, fin dal medioevo il Cadore organizzò la sua difesa, elaborando via via nel corso dei secoli apparati difensivi di crescente impegno e ambizione, al fine di sbarrare gli arrivi dei nemici provenienti dalla conca di Cortina.
Basterebbe l’epopea di Calvi a nobilitare una tradizione che ha sempre voluto su queste pendici, arroccate sulla stretta montana e dominanti la strada, il primo vero presidio del Centro Cadore, la sentinella avanzata del castello di Montericco.
Lo si raggiunge imboccando la stradina che dall’Alemagna porta alla frazione di Seppiane e arrivando, dopo pochi tornanti, a quota 1050 metri. Qui, dall’ex arteria militare, che prosegue fino a Col Sant’Anna e al Pian di Sadorno, una carrabile di servizio porta in poche decine di metri al piazzale d’armi di una grande caserma scavata nella roccia, dalla facciata ambiziosa e sorprendente, lunga ben 60 metri.
Siamo sul fronte di gola del forte di Pian dell’Antro, iniziato nel 1910 e voluto per operare insieme alla “tagliata” sita poco più in basso, sulla strada statale.
In effetti, il forte di monte Rite, costruito a partire dal 1911 a ben 2183 metri d’altitudine (sulla riva opposta del fiume), non fu che il tempestivo completamento, quale “opera alta”, del forte di Pian dell’Antro, giudicato subito troppo basso e vulnerabile dalle alture circostanti. Si concepì dunque una moderna sinergia tra forte alto e basso, con l’obiettivo di stendere un’insuperabile catena di sbarramento sulla valle, in grado di arrestare qualsiasi penetrazione nemica che avesse tentato di incunearsi verso Tai o di cercare vie alternative attraverso Forcella Cibiana o Forcella Chiandolada.
Ma se oggi in molti salgono al Rite attratti dalla moderna (ma in qualche modo alterata) struttura voluta da Messner, ben pochi visitatori si fermano a respirare le atmosfere decadenti ma originali di questo forte rimasto tale e quale la distruzione austriaca l’ha ridotto 90 anni fa.
Attraversato il cortile, si notano sul fianco destro dell’edificio gli ingressi alle gallerie d’accesso ai depositi di esplosivo, mentre nella caserma vera e propria si può entrare per due porte principali, una a destra e una a sinistra della facciata.
E’ possibile riconoscere ancor oggi la destinazione dei vari locali al primo e secondo piano (cucina, posto di guardia, cabina elettrica, servizi igienici...), ma forse la cosa più interessante è percorrere il lungo corridoio che, scavato nella viva roccia e piegato verso ovest, va a congiungersi con un’altra galleria proveniente dai depositi, portando infine alla batteria corazzata. Quello che una volta era il “cuore” del forte, la grande piattaforma di calcestruzzo (metri 56 x 20 circa), nella quale riposavano le quattro grandi cupole corazzate Armstrong per cannoni da 149 A, versa oggi in penosa fatiscenza.
Tra le lastre deflagrate, si riconoscono solo i grandi crateri che recano ancora l’impronta dell’acciaio che li occupava, mentre il lungo corridoio retrostante i pozzi, con le relative riservette, appare ingombro di macerie.
Ma è la zona dei depositi sotterranei ad affascinare più di tutto. Con l’aiuto di una torcia, si accede facilmente ai grandi stanzoni adibiti a depositi di granate e di balistite, ma pure cercare nel bosco i lunghi camminamenti, le trincee, i corpi di guardia, le cannoniere costituisce oggi un’attività coinvolgente e sorprendente, alla luce dello sforzo allora profuso per realizzare una vera cittadella fortificata, concepita per resistere ad ogni possibile invasione nemica.
Invece, Pian dell’antro fu abbandonato troppo presto, dopo aver sparato poco o male (si pensi alle conseguenze su Vodo) ed essere stato solo parzialmente sabotato, dispensando le sue dotazioni in parte alla popolazione subito accorsa, in parte al sopravveniente invasore austriaco.
Questo volle distruggerlo almeno nella batteria corazzata, fissando in pratica quell’istantanea di distruzione che oggi abbiamo di fronte agli occhi.
Paradossale dunque ancora una volta il destino della fortificazione cadorina. Nata all’insegna dell’ambizione politica e militare, nonché della lungimiranza strategica e tecnica, è ridotta oggi a lampante esempio di inanità.
Ma, questo, oltre a non togliere alcunché all’interesse del forte come eccezionale documento storico, costituisce in definitiva un pregio in più, perché anche i paradossi possono diventare attrattiva culturale e turistica.- Walter Musizza e Giovanni De Donà


il Corriere delle Alpi — 23 maggio 2007 pagina 16 sezione: CRONACA

 

«Opportunità dalle caserme dismesse»

BELLUNO. La Tasso e al Fantuzzi dalla Difesa al Demanio. Dopo l’incontro di sabato scorso con il sottosegretario alla Difesa Marco Verzaschi dedicato alle caserme dismesse, interviene il capolista di “Belluno Popolare” Giovanni De Lorenzi, per sottolineare che «tra i 201 immobili di proprietà della Difesa passati recentemente all’Agenzia del Demanio vi sono la caserma Jacopo Tasso e la caserma Fantuzzi di Belluno, oltre al deposito munizioni di Pieve di Cadore, l’ex casermetta difensiva Passo Oregone e il poligono di tiro Malpasso di Santo Stefano di Cadore, nonché l’ex Forte Pian dell’Antro a Valle di Cadore».
«I nuovi amministratori di Belluno potranno cimentarsi anche con questa opportunità», aggiunge, «che permetterà una mutazione urbanistica di valenza storica per la città di Belluno, dato che potranno essere concessi per una durata fino a 50 anni, oltre che ceduti». (e.c.)


il Corriere delle Alpi — 24 novembre 2007 pagina 37 sezione: SPETTACOLO

 

Il disastro di Vodo nel 1917

La ritirata della IV Armata del generale Di Robilant dal Cadore nei frenetici giorni seguiti a Caporetto risultò senz’altro drammatica ed inopinata, nel contesto di un apparato militare e civile incredulo di dover abbandonare senza propria colpa importanti posizioni finora mai cedute al nemico. In particolare il deflusso delle nostre truppe lungo la Val Boite nella prima decade di novembre 1917 fu laborioso e convulso, contrassegnato dall’esigenza di raggiungere subito la pianura e nello stesso tempo di sfruttare per quanto possibile il grande potenziale della Fortezza Cadore-Maè, che aveva voluto disseminare una serie di postazioni per cannoni sulle alture intorno alla Chiusa di Venas, concependole in stretta sinergia con la difesa, ritenuta insuperabile, dei forti di Pian dell’Antro e di monte Rite. Le popolazioni di S.Vito, Vodo e Venas scoprirono cosi, con agro stupore, che quelle stesse bocche da fuoco che erano state volute per assicurare l’impermeabilità della propria valle a qualsiasi offesa nemica si ritorcevano ora, per un amaro paradosso della storia, contro le loro stesse vite, contro le proprie case. Il giorno 5 novembre, mentre la popolazione di Vodo riceveva l’ordine di sgombero per permettere al fuoco del Rite di contrastare l’avanzata nemica e il paese sembrava una bolgia indescrivibile, anche per lo sfilamento in corso dei nostri reparti. Alle 13 del giorno 6 giunsero in pazza a San Vito le avanguardie di truppe alpine austriache e il giorno dopo questi iniziarono a requisire vacche e manzetti e a macellarli all’istante per la fame delle nuove truppe in arrivo. La mattina di quello stesso giorno 7, con cielo coperto e atmosfera funeraria, furono uditi i primi colpi delle nostre artiglierie di Sadorno, Pian dell’Antro e della Chiusa di Venas, nonché di quelle da 75 poste sulle alture di Socchiuse e Sottiera, sulla riva destra del Boite, Poco sopra il ponte di Cibiana. I proiettili, susseguitisi a ritmo crescente, squarciavano il cielo sopra il paese impaurito: alle 13 il fuoco raggiunse il massimo vigore e per tre ore l’intero abitato di San Vito dubitò della sua sopravvivenza. Alle 5 del pomeriggio i tiri parvero concentrarsi solo sul paese di Vodo e alle 10 di sera tutto si era placato. Tirava però un forte vento e cadeva la neve: in un’oscurità totale, dovuta alla mancanza di energia elettrica, gli abitanti di San Vito potevano scorgere tutta la vallata della Chiusa e il versante nord del Rite illuminati dalle fiamme che divoravano il paese di Vodo. L’8 novembre la resistenza alla Chiusa di Venas si era definitivamente esaurita. Erano saltati i ponti sul Rudan presso Peaio e sul Boite lungo la strada Venas-Cibiana, ma era stato Vodo a pagare il prezzo maggiore del nostro conato difensivo. In paese gli austriaci giunsero numerosi la sera del 7, tanto da formare due grossi assembramenti, rispettivamente davanti alla casa di Gregorio Gregori e davanti all’abitazione d’una famiglia Belli. Fu alle 8, secondo il racconto del maestro Serafni, che il prete fece suonar messa, fatto invero inconsueto e sorprendente, giacché dall’inizio della guerra vigeva il divieto di scampanio. Probabilmente egli si sarà sentito autorizzato a farlo dalla scomparsa del regime che tale divieto aveva posto, ma certo l’occasione non fu propizia: i presidi dei forti di Rite e Pian dell’Antro ed i contingenti presenti sulle alture di Sadorno, Socchiuse e Sottiera, vedendo dall’alto quei grossi assembramenti e scambiato il suono delle campane per un allarme, avrebbero puntato i cannoni sul paese, bombardandolo senza pietà. Le granate colpirono dapprima la casa del Gregori e quella dei Belli, ma poi tutto il paese rimase coinvolto dal bombardamento, durato ben 10 ore, tanto da costringere la gente esterrefatta a riparasi sotto gli antri sulla riva sinistra del Boite, proprio sotto il paese. Quando il bombardamento cessò (due donne morte), tutti poterono tornare in paese, ma 43 famiglie trovarono la casa bruciata e i loro averi volatilizzati. I punti più colpiti e danneggiati dall’incendio furono la borgata”Chiarediego”, totalmente distrutta, e gran parte della borgata “Rezzuò”. Ma non c’era casa che vantasse un vetro intatto e praticamente distrutta appariva la stessa chiesa di Santa Lucia, di cui si salvò solo il campanile e quella parte del suo patrimonio e dei suoi ricchi arredi che il Parroco riuscì ad afferrare gettandosi tra le fiamme. Fini bruciata la pala di Cesare Vecellio, raffigurante il trittico di Maria Vergine fra Santa Lucia e San Gottardo. Andarono perduti anche paramenti ed arredi sacri di pregio, tra cui una croce d’olivo che ornava il secondo altare laterale destro. - Musizza e De Donà


il Corriere delle Alpi — 26 novembre 2008 pagina 13 sezione: CRONACA

 

Fondi per le caserme dismesse

BELLUNO. La Giunta regionale ha approvato ieri il secondo stralcio di interventi per il recupero della ex caserma “Bianchin” in Cansiglio. Si tratta di opere per sistemare il terreno e riportare lo sfalcio dei prati caratterizzati dalle fioriture tipiche della zona, i cosiddetti “arrenantereti degradati” o “praterie magre da fieno a bassa altitudine” individuate dal codice Natura 2000 “6510”. Per questa operazione, proposta dagli assessori ai parchi Flavio Silvestrin e al territorio Renzo Marangon, il governo veneto ha approvato il finanziamento di 150 mila euro a favore dell’azienda regionale Veneto Agricoltura con la quale la Regione ha sottoscritto un’intesa per realizzare i lavori. La prima parte del progetto, comprendente la demolizione di alcuni fabbricati e di terrapieni con il recupero di alcune aree a pascolo per l’importo di 511mila euro, era stata approvata il 31 dicembre 2007, anche in questo caso attraverso un atto d’intesa tra la Regione e Veneto Agricoltura. Oscar De Bona, che siede in giunta regionale, commenta: «Tutta l’operazione comporta sicuramente notevole impegno, ma è di enorme importanza per l’alta qualità ambientale del luogo. Il recupero dell’area di ben 13 ettari occupata dai resti in degrado della vecchia base missilistica della Nato, poi caserma “Bianchin” dell’esercito italiano, permetterà finalmente di cancellare quella bruttura nel mezzo di un pianoro ben curato e frequentato da molti visitatori ed escursionisti». Dopo anni di iter burocratico per la smilitarizzazione dell’area è stato possibile partire con gli interventi di smantellamento e bonifica dell’ex “Bianchin” solo dal 7 agosto scorso quando, presente il ministro Luca Zaia, è stata effettuata la consegna dell’immobile a Veneto Agricoltura. La base del Pian Cansiglio faceva parte del 59. Gruppo IT del 16. Stormo IT della 1. Brigata aerea dell’Aeronautica militare italiana, collegata a una caserma a Vittorio Veneto, con un’area di lancio dei missili sulla Piana e una di controllo radar sul monte Pizzoc, che è stata demolita qualche anno fa. Nella stessa seduta, la giunta di Palazzo Balbi ha approvato i contributi in conto capitale da erogare a favore degli enti locali che intendono acquisire e utilizzare immobili dimessi dal ministero della Difesa. Sulla base delle richieste, in provincia di Belluno sono stati assegnati al Comune di Agordo 250 mila per l’acquisto del Poligono di tiro, a quello di di Valle di Cadore 50 mila per l’acquisizione del forte Pian dell’Antro e a quello di Auronzo di Cadore 30 mila per acquistare il complesso della caserma di Val de l’Aga.

il Corriere delle Alpi — 15 gennaio 2009 pagina 25 sezione: PROVINCIA

 

Valle e Auronzo: finanziamenti per i beni militari dismessi

AURONZO. Contributi veneziani a Valle (50mila euro) e ad Auronzo (30mila) per l’acquisto di beni militari dimessi dal ministero della Difesa, che saranno utilizzati dai due enti locali per usi sociali. Il Comune di Valle ha fatto richiesta di contributo perché intende acquistare il “Forte pian dell’Antro”, che si trova lungo la ex strada militare “Forti Venas”: il contributo regionale concorrerà al 50% della spesa, visto che ministero ha valutato la struttura 100mila euro. Al Comune di Auronzo, invece, il contributo in conto capitale di 30mila euro servirà per l’acquisizione della caserma Val de l’Aga, una vecchia struttura che si trova ai piedi delle Tre cime di Lavaredo e che oggi si raggiunge solo attraverso una mulattiera. Secondo il progetto di massima, la caserma dovrebbe essere recuperata e utilizzata per fini turistici: forse, ma tutto è ancora in alto mare, potrebbe essere trasformata in un rifugio alpino. Auronzo e Valle sono gli unici due enti locali cadorini che hanno fatto richiesta di contributo, insieme ad Agordo, che ha richiesto un contributo per l’acquisto del poligono di tiro. In Cadore sono ancora molti gli edifici dimessi dal ministero della Difesa che potrebbero essere riutilizzati per il bene della comunità civile. Solo a Pieve di Cadore ci sono vari edifici, specialmente nella zona della Madoneta e di monte Zucco, che erano adibiti a depositi militari e che ora sono abbandonati o chiusi. Quello della Madoneta è l’esempio più eclatante che, secondo alcune voci provenienti dall’ambiente militare, starebbe per risolversi in modo positivo in favore della comunità. Come il Corriere ha riportato circa due anni fa, mentre gli hangar che ospitavano il materiale e i mezzi militari della caserma Calvi sono vuoti, proprio all’interno del recinto del deposito ci sono i mezzi della Protezione civile che marciscono sotto le intemperie. Ora, sembra che le strutture vuote possano essere occupate da tali mezzi: ma sinora l’unico movimento che è stato notato è quello fatto dal Comune di Pieve per lo sgombero della neve. (v.d.)