Carta di
Francesca La
Barbera.
Conversazione
con Mario
Isnenghi,
storico. a
cura di
Fabrizio
Maronta,
Lucio
Caracciolo
LIMES
Cosa resta
oggi del
progetto
geopolitico
che portò
l’Italia in
guerra?
Quali le
conseguenze
del
conflitto
sul processo
di sviluppo
dell’identità
nazionale e
sulla
legittimazione
dello Stato
italiano?
ISNENGHI
Queste
domande me
le sento
spesso
rivolgere
nelle
conferenze
che vado
facendo in
giro per
l’Italia e
all’estero.
Di dibattiti
sul tema ne
vengono
organizzati
molti, segno
che i motivi
d’interesse
per la prima
guerra
mondiale non
mancano,
anche se non
sono
necessariamente
gli stessi
per tutti.
Per me sono
soprattutto
quelli
sottesi alle
domande di
cui sopra;
per altri –
per la
maggior
parte, credo
– stanno
invece nella
stupefazione
davanti
all’accettazione
della
strage. In
questo
momento papa
Benedetto XV
gode di una
notorietà
postuma
assolutamente
straordinaria:
quasi che la
sua
definizione
della guerra
come
«inutile
strage»
riassumesse
in sé tutti
i
significati
e le
sfaccettature
di quel
conflitto
enorme e
complesso,
svelando ciò
che molti
fraintendevano
o
disconoscevano
volutamente.
Naturalmente
le cose sono
più
complesse.
Ma dato che
qui in
realtà non
stiamo
parlando di
storiografia,
bensì di
echi e
rimbalzi
nella
memoria e
soprattutto
di politica
della
memoria,
quel che è
vero conta
fino a un
certo punto.
Conta
piuttosto
l’uso
pubblico che
se ne può
fare. Mi
trovo spesso
a discutere,
anche
esplicitamente
– come nella
prefazione
all’ultima
edizione del
Mito della
Grande
guerra,
appena
uscita per i
tipi del
Mulino – con
gli storici
francesi, o
francesizzanti,
che della
Grande
guerra
tendono a
vedere solo
l’assurdo,
il nonsenso,
l’inutile
strage
appunto.
Stiamo
attenti
però: c’è
l’assurdità
della
carneficina,
della
«guerra
totale»; ma
c’era anche
chi in
quella
guerra
vedeva
moventi e
scopi, cioè
un senso.
Cercando di
fare storia,
piuttosto
che politica
della
memoria, mi
dico: la
storiografia
serve a
capire ciò
che
pensavano i
contemporanei
e come
vivevano il
loro
presente,
non a
sovrapporre
al loro il
nostro. Del
conflitto
quelle
persone
vissero
anche
l’assurda
violenza,
dunque la
retorica
dell’inutile
strage ha
una sua
legittimità.
Tant’è che
si impone
appunto nel
1917, anche
se i suoi
sviluppi
sono
soprattutto
postumi.
Oggi, ma già
dalla fine
del
Novecento,
la lettura
prevalente
della prima
guerra
mondiale è
quella di un
evento
assurdo,
privo di
senso
logico. La
frase di
Benedetto XV
è
semplicemente
un modo per
conferire
ufficialità
a una
visione che
in realtà
nasce fuori
dal
perimetro
della Chiesa
cattolica.
Altrimenti
non si
spiega
perché essa
sia
fortemente
sostenuta
dalla
storiografia
francese,
che di per
sé cattolica
non è. Credo
che il senso
dell’assurdo
maturi in
realtà dalla
crisi della
storia e
della
legittimità
della
storiografia.
La
cosiddetta
«fine della
storia»
proclamata
da Fukuyama
dopo il 1989
trascina con
sé anche
l’intenzione
di non
riconoscere
alcuna
legittimità
ai modi di
pensare e di
vivere del
passato.
Siccome non
siamo più
capaci di
produrre
grandi
narrazioni,
neghiamo
anche ai
nostri
predecessori
di averne
avute.
Questo per
me è
inaccettabile.
LIMES
Ma com’è
possibile,
da un punto
di vista
strettamente
storiografico,
negare che
in passato
vi fossero
grandi
narrazioni?
ISNENGHI
Basta – si
fa per dire
–
relativizzare
tutto, non
credere più
nell’oggettività
dei fatti,
enfatizzare
sempre e
comunque il
prevalere
dell’interpretazione,
cioè dei
fatti di
secondo
grado
rispetto a
quelli di
primo grado.
Si tratta di
un
atteggiamento
molto
diffuso,
persino tra
gli storici
e a maggior
ragione tra
gli
esponenti di
altre
scienze
sociali. I
presentisti,
categoria
numerosa
oggi, non
credono
nella storia
e se ne
disfano.
Viene loro
naturale
negare –
ovvero
distorcere –
le grandi
narrazioni
altrui,
piegandole
ad usi
attuali.
Paradossalmente,
anche la
storiografia
è stata
invasa da
questo
atteggiamento
di negazione
della
liceità
storiografica.
In un certo
qual modo
ciò mi
favorisce,
perché dai
tempi di I
vinti di
Caporetto mi
sono sempre
tendenzialmente
mosso
controcorrente.
Da diversi
anni vivo
una
situazione
paradossale:
da fautore
di una
storia
fattuale e
non
puramente
interpretativa,
coltivo una
sana
eterodossia
rispetto
alla
tendenza
prevalente,
pur essendo
i miei
lavori
basati per
l’appunto da
sempre su
fonti
d’ordine
soggettivo.
LIMES
Veniamo
dunque ai
fatti. La
lettura
della prima
guerra
mondiale
come inutile
strage,
evento
assurdo,
sembra
escludere la
presenza di
intenti
razionali
nei suoi
protagonisti,
tanto a
livello di
élite,
quanto di
popolo. Lei
però ricorda
che
l’assurdità
è solo una
delle chiavi
di lettura
del
conflitto,
che vide
incrociarsi
e
sovrapporsi
diverse
narrazioni.
Ce ne parli.
ISNENGHI
Sgombriamo
intanto il
campo da un
possibile
equivoco: la
narrazione
non implica
necessariamente
un progetto.
Ad essa
basta
l’esperienza
– in questo
caso
l’esperienza,
terribile e
intensa,
della
guerra. Non
dimentichiamo
che la prima
guerra
mondiale è
una guerra
di massa,
perché
basata sulla
coscrizione
obbligatoria:
6 milioni e
600 mila
morti nella
sola Italia.
Aggiungiamoci
l’influenza
spagnola, la
cui
incidenza
devastante è
in parte
collegata al
deterioramento
delle
condizioni
mediche e
sanitarie
indotto dal
conflitto, e
il totale
delle
vittime
schizza a
cifre
enormi, che
cancellano
la memoria
delle guerre
d’indipendenza.
La quale,
tuttavia, fa
parte di
quella
componente
progettuale
che pure c’è
nel 1914-18,
perché per
alcuni
settori
interventisti
il conflitto
si configura
come quarta
guerra
d’indipendenza.
Il progetto
sta nel
completare
la
costruzione
della
nazione
italiana,
del suo
sentimento
d’identità
(al tempo
questa
parola non
si usava),
attraverso
la
«liberazione»
di Trento e
Trieste.
Come se
queste
fossero già
state
italiane.
C’erano
fondati
motivi per
sostenere
che lo
fossero,
almeno in
parte, sotto
il profilo
culturale,
ma dal punto
di vista
politico-amministrativo
non lo erano
mai state.
Ma il mito
dipingeva
Trento e
Trieste come
città
irredente e
se il mito
funziona, il
resto passa
in secondo
piano,
perché in
ultima
analisi sono
le
convinzioni
a
determinare
le azioni, a
prescindere
da come esse
si siano
formate. Nei
miei studi
preparatori
alla prima
edizione del
Mito della
Grande
guerra,
un’importanza
fondamentale
l’ha avuta
ciò che i
vociani e
gli altri
fiorentini
ad honorem
primo-novecenteschi
fanno dire a
Vilfredo
Pareto sulle
loro riviste
riguardo al
mito: a che
pro
discutere se
le classi
sociali
esistono o
meno, se ci
sono milioni
di persone
che ci
credono? Che
senso ha
discettare
di
plausibilità
della
rivoluzione,
se in
milioni la
vogliono
fare?
Attrezzatevi
piuttosto
con
contro-miti
adeguati, se
volete
mantenere il
potere.
Questo mi ha
permesso,
dagli anni
Sessanta ad
oggi, di
lavorare sì
alla
smitizzazione
della Grande
guerra, ma
ponendo
all’ordine
del giorno i
miti. Nella
recente
prefazione
alla settima
edizione del
libro dico
proprio
questo: con
il mio
lavoro posso
partecipare
alla
smitizzazione
di quel
conflitto,
come oggi va
di moda. Ma
da parte mia
tale
smitizzazione
non sarà mai
completa,
perché io
pongo
all’attenzione
le ragioni
per le quali
al tempo
quei miti
furono
sentiti come
veri,
portando al
fronte molte
persone. Gli
incanti non
mi
interessano
meno del
disincanto.
Una
questione
fondamentale
poi, che
ponevo nei
miei primi
libri e che
ad oggi mi
pare
irrisolta,
riguarda gli
increduli di
allora,
quelli che
non ci
credono, ma
fanno la
guerra lo
stesso. Che
succede in
quella vasta
zona
intermedia,
fatta di
milioni di
persone,
dove non
arrivano i
miti che
mobilitano
le classi
dirigenti e,
in
particolare,
gli
interventisti?
Come vivono
e come
elaborano la
guerra
quanti sono
costretti a
combatterla,
facendone
esperienza
viva e
tangibile,
ma non ne
condividono
alcuna
spinta
ideale?
Carta di
Laura Canali
LIMES
In oltre
quarant’anni
di ricerche,
che risposta
si è dato?
ISNENGHI
Una risposta
che ha a che
fare con
l’importanza
storica,
sociale e
psicologica
dell’obbligo
nella
società di
massa e
nella sua
espressione
bellica, la
guerra di
massa. Gran
cosa,
l’obbligo.
Pensiamo
alla
scolarizzazione.
Ancora nel
primo
Novecento in
Italia era
consentita
la
cosiddetta
«educazione
paterna»: in
certe grandi
famiglie i
bambini non
andavano a
scuola,
erano
educati in
casa. È
chiaro però
che ciò
riguardava
una
ristretta
élite; per
tutti gli
altri, la
scuola
pubblica era
l’unica
chance di
ricevere
un’istruzione.
Ma ci
sarebbe
stata la
scolarizzazione
di massa
senza un
obbligo di
legge, senza
una
«coscrizione
scolastica»
obbligatoria?
L’obbligo
scolastico
fa il paio
con quello
militare:
scuola
pubblica ed
esercito
sono pensati
e vissuti
come fattori
di
formazione
di
un’identità
e di una
psicologia
collettive.
È forse
sulla base
del
volontariato
che si è
diffusa la
pratica di
far
frequentare
la scuola ai
figli?
Davvero
pensiamo che
il
proletariato
contadino,
ma anche
operaio, in
gran parte
illetterato
o
semianalfabeta,
si sarebbe
privato in
massa di
così tante
braccia
senon fosse
stato
costretto?
Ma allora:
dobbiamo
maledire
l’obbligo,
perché tutto
deve sempre
e comunque
passare dal
libero
arbitrio?
Questo
individualismo
autocentrato
mi appare
debole, del
tutto
incompatibile
con
l’esistenza
di società
articolate.
Sono ben
consapevole
dell’insidiosità
di questo
discorso,
che si
presta a
legittimare
forme di
arbitrio e
di
oppressione
dell’individuo.
Ma è un
fatto che
senza forme
di
obbligazione
non ci
sarebbero
gli Stati.
Ora, una
delle
formule
riassuntive
della prima
guerra
mondiale è
la trincea:
al contempo
prigione e
rifugio dei
soldati al
fronte. Ma
un’altra
formula,
altrettanto
efficace e
riassuntiva,
è l’assalto:
uscire da
quei ripari,
saltare
oltre i
sacchi di
sabbia ed
esporre il
proprio
corpo al
fuoco
nemico. È
immaginabile
che un
simile
gesto,
contrario ai
più
elementari e
umanissimi
istinti di
sopravvivenza,
sia lasciato
all’arbitrio
del soldato,
alla libertà
di migliaia,
milioni di
singoli io?
È possibile
che un tale
atto di
eroismo si
ripeta per
anni
unicamente
in virtù
dell’adesione
di milioni
di soldati
agli ideali
e agli scopi
della
guerra?
Possiamo
solo provare
a immaginare
la tragicità
di un
assalto in
cui
l’ufficiale
che esce per
primo per
trascinare i
commilitoni
ha buone
probabilità
di essere
colpito,
mentre
quello che
esce per
ultimo è
costretto,
pistola in
pugno, a
spronare i
più
recalcitranti.
Episodi come
quello
narrato da
Emilio Lussu
in Un anno
sull’altipiano
– i due
soldati che
si suicidano
pur di non
esporsi alle
pallottole
delle
mitragliatrici
nemiche –
vanno credo
al di là
della nostra
comprensione.
Pertanto
comprendiamo
le
diserzioni,
gli
ammutinamenti,
l’obiezione
di coscienza
spinta
all’estremo.
Ma siccome i
più non
compiono
questi gesti
di
sottrazione
e di
rifiuto,
occorre
chiedersi:
perché
combattono?
Perché vanno
in trincea e
perché ne
escono per
andare
all’assalto?
La cruda
risposta è:
l’obbligo,
uno dei
grandi
protagonisti
delle guerre
novecentesche,
a cominciare
da quella
del 1914-18.
LIMES
Torniamo al
fronte
interventista.
Lei ha
accennato al
progetto
nazionale,
incarnato
dalla
questione di
Trento e
Trieste. Ci
illustri
come si
articola
quel
progetto e
chi ne sono
i suoi
principali
fautori.
ISNENGHI
Il discorso
è più ampio.
Più che di
progetto,
occorre
parlare di
progetti, al
plurale.Il
primo e più
chiaro è
quello
cattolico.
In I
giornali di
trincea, il
libro sulla
propaganda
che ho
pubblicato
nel 1977,
parlo di
supplenza
cattolica.
Pensiamo
alle Case
del soldato.
Ma prima
ancora: qual
è il primo
atto
politico del
generale
Luigi
Cadorna,
quando
subentra ad
Alberto
Pollio –
morto nel
momento
peggiore per
un generale,
cioè allo
scoppio
della
guerra?
Ripristinare
e potenziare
la figura
del
cappellano
militare.
Del resto i
Cadorna,
questa
grande
dinastia
militare,
erano una
famiglia
cattolica.
Luigi non
tiene un
diario, ma
lo scrive
indirettamente
attraverso
le lettere
alla moglie
Giovanna e
alla figlia
Carla: da
quell’epistolario
si evince
che egli era
circondato
da suore e
da
terziarie.
La visione
odierna
della guerra
unicamente
come crudele
assurdità
presuppone
che tutti i
generali
siano
assassini
sanguinari;
non si
immagina che
il generale
Cadorna,
quello delle
stragi e
delle
fucilazioni,
colloqui
quasi
giornalmente
con questo
retroterra
etico-religioso.
Dunque
Cadorna
ripristina i
cappellani
militari: un
migliaio di
preti
cattolici e
alcune unità
fra pastori
protestanti
e rabbini,
in ossequio
ai princìpi
liberali del
Regno. Fuori
gli
intellettuali,
i volontari
e gli
interventisti:
che non s’immischino,
perché è
alla
disciplina
che si
guarda,
confortata e
favorita dai
preti in
grigioverde.
È dunque
questo il
progetto
cattolico:
la
reintegrazione
della Chiesa
che
garantisce
l’ubbidienza
delle masse
contadine
irreggimentate,
in una nuova
stagione
politica,
culturale e
sociale dei
rapporti tra
Stato e
Chiesa.
Cambio di
linea,
superamento
del
clerico-intransigentismo,
passaggio al
clerico-moderatismo
e
all’accordo
simbiotico
Stato-
Chiesa.
Questo
processo non
comincia nel
1914: primi
tentativi si
hanno già a
fine
Ottocento.
Per esempio
a Venezia,
quando la
giunta
laico-progressista
Selvatico
del 1890
vieta
l’affissione
di
crocefissi
nelle scuole
e negli
edifici
pubblici,
suscitando
scandalo e
scatenando
le ire del
patriarca.
Ma chi è il
patriarca? È
Giuseppe
Sarto, il
futuro papa
Pio X,
leader
dell’intransigenza
clericale in
una Venezia
che al tempo
è sede
dell’Opera
dei
Congressi
(l’Azione
cattolica
del tempo),
guidata dal
laico Giovan
Battista
Paganuzzi.
Certo,
Venezia è
una realtà
complessa e
contraddittoria,
dove la
borghesia
progressista
convive con
i bastioni
della
conservazione.
E operazioni
di questo
tipo non
sono da
tutti: ci
vuole un
leader
clerico-intransigente
della taglia
di Sarto per
sospendere
il non
expedit
nella
Serenissima,
anticipando
di una
decina
d’anni il
ritorno in
campo nelle
elezioni
amministrative
e il patto
Gentiloni
nelle
elezioni
politiche
del 1913,
reso
«necessario»
a sua volta
dal
suffragio
(quasi)
universale
introdotto
da Giolitti.
Così come,
ottant’anni
dopo, ci
vorrà
Andreotti
per fare il
centro-sinistra.
Ma, come si
vede, queste
sono tappe
di un
processo,
che ha nel
1914 un
momento
cruciale. La
Chiesa vede
nella guerra
la grande
opportunità
di forgiare
un patto con
lo Stato
italiano,
alla cui
esistenza si
deve ormai
conformare.
Accanto a
Cadorna c’è
padre
Agostino
Gemelli, il
futuro
fondatore
dell’Università
cattolica
del Sacro
Cuore, che
viene da una
famiglia
laica e
progressista,
è stato un
positivista,
è medico e
psicologo,
ma si è
convertito
diventando
un frate:
una grande
speranza dei
cattolici.
Tra i suoi
progetti c’è
la
consacrazione
al Sacro
Cuore di
Gesù
dell’intero
Esercito
italiano:
questo è
pensare in
grande,
coltivare un
progetto,
che mira
niente meno
che a
riconsacrare
un intero
paese,
moltiplicando
per milioni
di volte la
sua stessa
conversione,
o reversione
che sia. Del
resto già
verso il
1880, sotto
Leone XIII,
ad essere
negata non è
l’Italia,
bensì lo
Stato
liberale, il
Risorgimento
«senza Dio».
La nazione
va bene – ma
guelfa,
com’è sempre
stata. La
Grande
guerra può
essere
l’occasione
di
esplicitare
e attuare il
progetto di
nazione
guelfa:
nazionalizzazione
delle masse
anche
questa.
LIMES
Ma il
progetto di
nazione
guelfa non
implica
l’esistenza
di uno Stato
guelfo.
L’Italia
poteva ben
essere –
come in
effetti è
stata – un
territorio
con un’anima
cattolica
che
prescinde da
un
«involucro»
statuale
unitario. Il
progetto
cattolico
implica
invece
proprio
questo: far
coincidere
Stato e
nazione
sotto il
segno del
cattolicesimo.
ISNENGHI
È così, ma
ciò è figlio
del 1861.
L’espressione
«nazione
guelfa» può
intendersi
in senso
stretto –
quello di
una comunità
cultural-religiosa
che
prescinde
dallo Stato
– ancora
nell’ultimo
quarto
dell’Ottocento.
Ma alla
vigilia
della Grande
guerra è
ormai chiaro
che la
storia non
può essere
riportata
indietro:
l’unità
d’Italia è
una realtà
con cui la
Chiesa deve
fare i
conti, e li
fa in modo
pragmatico e
realistico.
Lo Stato
c’è, occorre
dargli
un’anima e
quest’anima
dev’essere
cattolica. A
Cadorna e a
molti altri
va bene; ad
altri, come
il generale
massone
Luigi
Capello, un
po’ meno.
LIMES
Dunque c’è
il progetto
cattolico.
Ma c’è
anche, lo ha
appena
ricordato,
un
interventismo
laico.
Rispondeva
anch’esso a
un progetto?
ISNENGHI
Se nel caso
cattolico si
può parlare
apertamente
di progetto,
nel caso
liberal-democratico
la questione
è più
sfumata. Il
termine
«progetto»
implica un
intento
consapevole,
una finalità
esplicita
cui
subordinare
una
politica.
Esiste, in
questo
senso, un
progetto
Battisti, un
progetto
Bissolati,
un progetto
Salvemini?
Di certo vi
è una
consapevole
relazione al
Risorgimento,
a Mazzini,
c’è la
volontà di
inserire un
nuovo
capitolo
storico nel
solco di una
storia
preesistente.
Ma un simile
intento non
è
risolvibile
in una
politica:
per gli
interventisti
democratici
la guerra
non è una
tattica, è
una
strategia. E
nemmeno una
strategia
italocentrica,
perché
Battisti è
deputato di
Trento a
Vienna,
mentre
Salvemini
crede
nell’Intesa
e nel buon
accordo con
gli slavi.
Gli
interventisti
democratici,
insomma, non
sposano il
«sacro
egoismo» del
presidente
del
Consiglio
Antonio
Salandra.
Essi sono
sulle
posizioni
dell’Intesa
e, pur senza
accoglierne
in toto la
propaganda,
contribuiscono
alla
propagazione
degli ideali
di libertà
di quell’alleanza.
Più a
sinistra
dell’interventismo
democratico
– in tutte
le sue
sfumature:
radicale,
repubblicano,
socialista
riformista –
c’è quello
strano
fenomeno,
mai
sufficientemente
indagato,
che è
l’interventismo
rivoluzionario,
«sporcato» a
posteriori
dal fascismo
– anche se
Alceste De
Ambris, «fiumano»
prima, sarà
poi un
leader della
diaspora
antifascista,
mentre il
fratello
Amilcare fu
un
sindacalista
fascista
della prima
ora, a
riprova
della
complessità
delle
vicende
storiche.
Tra gli
esponenti di
quest’interventismo
dell’estrema
vi fu il
leader
operaio
milanese
Filippo
Corridoni,
la cui
prematura
scomparsa
nel 1915 sul
Carso, nella
Trincea
delle
Frasche,
stroncò una
carriera
politica di
non facile
decodifica.
Poi ci sono
i fratelli
Garibaldi:
quando la
guerra in
Italia non
era ancora
scoppiata,
sei dei
sette figli
di Ricciotti
vanno a
combattere
in Francia.
Anche loro
sono
convinti
d’interpretare
una storia e
una leggenda
che viene da
lontano: non
vi è nulla
di tattico e
di
contingente
in questo,
piuttosto
un’adesione
spirituale e
operativa
all’ideale
della
libertà dei
popoli, per
il quale si
combatte
ovunque ve
ne sia
bisogno,
senza
strettoie
territoriali.
Perché la
guerra, come
ebbe a dire
Giuseppe
Garibaldi –
che aveva
della guerra
una visione
piuttosto
pratica, non
ideologica –
si fa quando
serve, per
poi tornare
a occuparsi
d’altro. Si
può parlare
qui di
progetto?
Sì, se per
progetto
s’intende la
continuazione
e
l’adeguamento
di quanto
fatto da
Mazzini, che
quando fondò
la Giovine
Italia
pensava
anche alla
Giovine
Germania, o
alla Giovine
Polonia –
cioè alla
liberazione
dei popoli.
Mentre
invece la
Prussia
fondava la
Germania con
altri metodi
– per atto
d’imperio
dall’alto,
non con uno
sforzo
corale dal
basso – e
con altre
finalità,
grosso modo
riassumibili
nell’espressione
«politica di
potenza».
Quanti
mettono in
dubbio il
Risorgimento
italiano,
sottolineandone
i piccoli
numeri – ma
tralasciando
l’entità
effettiva
del
volontariato,
cifra
caratterizzante
di quella
stagione –
non colgono
l’eccezionalità
di figure
come Mazzini
e Garibaldi,
assenti
nella genesi
dello Stato
tedesco e il
cui impatto
non è certo
limitato
alla storia
italiana.
Figure di
lungo
periodo, la
cui eredità
è ancora
viva e
attuale nel
1914. Più
che di
progetto,
parlerei
dunque di un
sentire
comune, un
modo di
concepire e
fare la
guerra come
strumento
per
riprendere
il progetto
di
edificazione
di uno Stato
nazional-popolare.
Concetto che
non è
un’invenzione
di Gramsci,
come non lo
fu di
Mussolini.
Il problema
di costruire
uno Stato di
popolo nasce
con l’Unità
e si
trascina, in
varie forme,
per buona
parte del
Novecento.
Carta di
Laura Canali
LIMES
Esiste anche
un «progetto
Salandra»?
Quali sono i
moventi
governativi
prima e
durante il
conflitto?
ISNENGHI
Giovanni
Giolitti dà
il nome a
un’età –
quella
giolittiana
appunto –
tale è stata
la sua
importanza.
Liberal-riformista,
leader
dell’ala
sinistra del
partito al
governo dal
1861,
all’inizio
degli anni
Dieci
Giolitti,
oltre a
riprendere
l’attività
coloniale
con la
guerra di
Libia del
1911-12,
vara la
nuova legge
elettorale.
È il 1912 e
per la prima
volta in
Italia è
introdotto
il suffragio
universale
maschile.
Sarà questa
la legge con
cui si
voterà alle
elezioni
politiche
dell’anno
seguente. Si
tratta di un
suicidio
politico? È
la scelta di
uno statista
che pensa
più in
grande
rispetto a
un capo
partito?
Possibile
che Giolitti
ignorasse
che la nuova
legge
avrebbe
penalizzato
i candidati
liberali?
Probabilmente
no, ma sta
di fatto che
il risultato
del voto
mette il
Partito
liberale di
fronte alla
necessità di
un accordo
con i
cattolici,
suggellato
dal patto
Gentiloni.
Il
parlamento
eletto nel
1913 durerà
per tutta la
guerra. Non
è un
parlamento
antigiolittiano:
malgrado
tutto, in
esso siede
un cospicuo
numero di
deputati
rimasti
fedeli a
Giolitti.
Tuttavia,
allo scoppio
della guerra
in Europa il
presidente
del
Consiglio
non è
Giolitti.
Non è la
prima volta
– e non sarà
l’ultima –
che l’Italia
ha un «governicchio»;
è però la
prima volta
che un
simile
esecutivo
incrocia
un’occasione
esterna come
la guerra,
gravida di
opportunità
ma anche di
rischi e di
enormi
responsabilità
per chi
siede a
Palazzo
Chigi.
Antonio
Salandra era
all’altezza?
Probabilmente
no, o almeno
non forse
quanto lo
sarebbe
stato Sidney
Sonnino, un
altro
liberal-conservatore
di
propensioni
tripliciste
che guida il
dicastero
degli
Esteri.
Anche il suo
predecessore
Antonino di
San
Giuliano,
morto di
malattia
nell’autunno
del 1914,
era uomo di
consentanea
e comprovata
esperienza.
A lui spetta
la prima
scelta
decisiva,
quella di
non scendere
in guerra
subito al
fianco
dell’Austria.
Fatto sta
che allo
scoppio
delle
ostilità
l’Italia ha
un governo
privo di
maggioranza,
che deve
decidere se,
con chi,
quando e per
quali scopi
portare il
paese in
guerra. Non
è poco per
un esecutivo
così debole,
che non a
caso ricorre
alla
sospensione
dell’attività
parlamentare.
Si trattò di
un sopruso?
È da allora
che ci si
chiede se
sia stato o
meno un
colpo di
Stato,
spesso si
parla di
semi-golpe.
È un fatto
che lo
Statuto
albertino
delegava
molti poteri
al capo
dello Stato,
specie nel
camp della
politica
estera e
della
guerra. Non
a caso, fino
ai primi del
Novecento il
ministro
della Difesa
– che allora
si chiamava
ministro
della Guerra
– era sempre
stato un
generale di
casa reale,
fortemente
legato al
partito di
corte. Il
peso del re
nella scelta
dell’Italia
di entrare
in guerra
trova
pertanto
riscontro in
una
circostanza
giuridica.
Che poi
Salandra e
Sonnino,
insieme al
re, si siano
avocati le
scelte
cruciali
culminanti
nei primi
giorni del
maggio 1915,
configura
quanto meno
un eccesso
di zelo
statutario.
E che il
parlamento
si riunisca
solo il 20
maggio, a
cose ormai
fatte – il
patto di
Londra è
firmato il
26 aprile e
impegna
l’Italia a
entrare in
guerra entro
un mese –
non giova
granché alla
democraticità
del
liberalismo
italiano.
Non mancano
peraltro i
risvolti
tragicomici,
come la
vicenda dei
trecento e
passa
biglietti da
visita –
extraparlamentari
per
necessità –
recapitati
dai
parlamentari
giolittiani
a Giolitti
per fargli
sapere che
gli restano
fedeli e
che,
pertanto,
sono
contrari
alla guerra.
Ma la vera
contraddizione
politica è
un’altra: da
un lato, la
coscrizione
obbligatoria
– vecchia
quanto lo
Stato
unitario –
tratta gli
italiani non
già da
sudditi, ma
da
cittadini,
mettendo
loro in mano
un fucile;
dall’altra,
lo Stato
diffida di
loro al
punto da
concedergli
il voto solo
alla vigilia
della
guerra.
Dunque
l’ingresso
dell’Italia
in guerra è
opera
dell’ala
conservatrice
del Partito
liberale,
quella
antigiolittiana…
Torniamo
all’interrogativo
iniziale:
c’è un
progetto
liberal-conservatore
dietro la
decisione di
schierare
l’Italia in
guerra? Se
di progetto
si può
parlare,
innanzi
tutto esso
non
prescinde
dal patto
Gentiloni e
dai
cappellani
militari di
Cadorna. Non
può
prescinderne,
perché la
guerra di
massa si
combatte
solo con le
masse
contadine in
armi, su cui
la Chiesa
esercita un
ascendente
fondamentale.
Ma i
conservatori
liberali non
vogliono
prescinderne.
In fin dei
conti,
Sonnino
pensava già
a fine
Ottocento di
allargare il
diritto di
voto,
convinto che
gli abitanti
delle
campagne
restassero
egemonizzati
dai
possidenti e
che, dunque,
non gli si
sarebbero
rivoltati
contro nelle
urne. Non va
poi
sottovalutato
il peso
istituzionale
dell’aristocrazia,
cui nel caso
specifico
sono
ascrivibili
sia Sonnino
sia San
Giuliano.
Dopo tutto,
al tempo in
Italia vige
la
monarchia.
Ciò detto,
non è certo
per ragioni
ideologiche
che Salandra,
Sonnino e il
re scelgono
di schierare
l’Italia con
l’Intesa.
Leggendo le
memorie di
Salandra, o
il carteggio
quasi
giornaliero
tra questi e
Sonnino,
Battisti e
Mussolini
sono quasi
assenti. È
come se
l’interventismo,
che pure
circondava
questi
statisti,
esulasse
completamente
dalla loro
ottica e le
ragioni
della guerra
restassero,
per le
classi
dirigenti
interpreti
del «sacro
egoismo»,
quelle
tradizionali
della
geopolitica.
Mentre alle
masse
dovevano
bastare la
disciplina,
la
rassegnazione,
l’ubbidienza.
La
geopolitica,
dunque.
Salandra,
Sonnino e
gli altri
non possono
fare a meno
di
constatare i
vincoli
geografici,
economici e
strategici
dell’Italia:
un paese
separato dal
resto
d’Europa
dalle Alpi e
circondato
per tre
quarti da
mari che, al
tempo, erano
dominati
dall’Inghilterra.
Un paese
privo di
materie
prime e
dipendente,
anche per
l’approvvigionamento
alimentare,
dal
commercio
marittimo.
Quanto
avrebbe
resistito
l’Italia se
si fosse
messa contro
Londra? Per
Salandra e
Sonnino,
dunque, la
retorica
irredentista
della quarta
guerra
d’indipendenza,
che per
altri è la
vera posta
in gioco, è
solo lo
zucchero
sulla torta.
Un
nazionalista
come
Francesco
Coppola
parlerà del
«fecondo
inganno»
degli
interventisti
democratici,
che si
scagliano
contro
l’imperialismo
tedesco. Per
un
nazionalista
come
Coppola, o
come Enrico
Corradini,
Alfredo
Rocco, Luigi
Federzoni e
gli altri
componenti
dell’Associazione
nazionalista
italiana,
che al tempo
non era
ancora un
partito,
l’Italia non
combatteva
l’imperialismo
in quanto
tale; essa
combatteva
contro
l’imperialismo
altrui e in
favore di
quello
italiano.
Questi
nazionalisti
erano contro
l’idea
mazziniana
di nazione,
in quanto
difensiva:
essa infatti
riconosceva
dei confini
frutto della
storia, ma
senza
prendere
atto che
tale storia
era a sua
volta il
risultato di
guerre
passate e
che, dunque,
nuove guerre
avrebbero
potuto
modificare
l’assetto
territoriale
esistente.
Così si
prenderà
Bolzano: non
perché non
si sappia
che sia
tedesca, ma
perché si
ritiene di
poterla
italianizzare
in un lasso
di tempo
ragionevole.
Idem dicasi
delle terre
slave.
Viceversa,
Gaetano
Salvemini e
gli altri
interventisti
democratici
sono
slavofili e
austrofobi,
in quanto
legati
ancora
all’idea
mazziniana
di nazione.
Per Salandra,
Sonnino, San
Giuliano e
gli altri
liberali
conservatori
invece
l’impero
multinazionale
non è un
male; anzi,
è un
antemurale
rispetto
alla Russia
e agli
slavi. Si
tratta
piuttosto di
recuperarne
i territori
ritenuti
necessari
allo Stato
italiano; i
quali,
peraltro,
possono non
coincidere
con quelli
che gli
interventisti
democratici
considerano
da redimere.
Il progetto
degli uomini
d’ordine è
insomma
quello della
grande
potenza: del
resto, è dal
1861 che si
ragiona in
termini di
potenza.
L’Italia è
arrivata per
ultima nel
concerto
delle
potenze
europee,
sicché deve
recuperare
terreno. Da
qui l’inizio
quasi
immediato
dell’avventura
coloniale,
interrotta
nel 1896
dalla
disfatta di
Adua e
ripresa da
Giolitti in
Libia nel
1911. Se di
progetto si
può parlare
per il campo
conservatore,
è dunque
questo:
l’Italia
deve
continuare a
perseguire
una politica
di potenza
all’altezza
dei tempi e
i tempi
richiedono
una guerra,
che peraltro
nel 1914-15
nessuno
immagina
così lunga,
dispendiosa
e tragica.
Si osa
sperare anzi
che, una
volta in
guerra,
Cadorna
possa
raggiungere
Lubiana e
addirittura
Vienna entro
il 1915.
Oggi ci
appare un
pronostico
assurdo, la
riprova
dell’asserita
follia dei
generali; il
fatto è che
al tempo
furono in
molti, e non
solo in
Italia, a
sbagliare
clamorosamente
i calcoli,
perché non
vi era
ancora la
piena
consapevolezza
del nuovo
tipo di
guerra che
si andava a
combattere.
Quella del
1914-18 è
stata la
prima guerra
moderna:
meccanizzata,
di massa e
totale.
Nessuno era
davvero
preparato
all’impatto,
umano e
materiale,
che essa
avrebbe
prodotto.
LIMES
All’inizio
del
Novecento la
guerra era
insomma
considerata
consustanziale
alla
potenza: non
si poteva
essere una
potenza
senza fare
la guerra.
ISNENGHI
Nell’Ottocento
la misura
della
potenza di
un
paeseerano
state le
colonie; nel
Novecento,
saranno le
corazzate. E
naturalmente,
le corazzate
servono,
prima o poi,
per fare la
guerra. Il
fine era «la
più grande
Italia», per
dirla con
l’espressione
ambigua – ma
anche per
questo
efficace –
di
D’Annunzio,
che avrà
grande
fortuna sui
monumenti ai
caduti. Meno
tragico e
suicida del
dannunziano
«vittoria
mutilata»,
ma
disastroso
dal punto di
vista
mediatico, è
il «sacro
egoismo » di
Salandra,
perfetto
esempio di
ironia della
storia.
Salandra non
aveva nulla
di
dannunziano,
anzi; quella
volta volle
descrivere
in modo
colorito il
suo operato,
che era poi
quello di
qualsiasi
altra
cancelleria:
fare
l’interesse
nazionale.
Lo fece
usando le
logiche di
un politico
conservatore
aduso al
realismo, ma
con una
espressione
micidiale
sul piano
dell’immaginario
collettivo e
dell’immagine
pubblica,
perché
scopre le
carte e dà
l’idea che
l’Italia sia
«sul
mercato».
Non che non
lo fosse;
illuminante
al riguardo
ciò che San
Giuliano
fece in
tempo a dire
prima di
morire
commentando
con dei
colleghi
parlamentari
la propria
esperienza
di ministro
degli
Esteri: «Mai
stato così
facile.
L’Italia è
corteggiata
da tutti».
Ovvio che lo
fosse: in
una guerra
in cui ben
presto i
belligeranti
si
impantanano,
l’ingresso
di un paese
dotato di un
esercito
inizialmente
mal
equipaggiato,
ma numeroso,
poteva fare
la
differenza.
Come in
effetti nel
1915 fece.
Lo storico
inglese G.M.
Trevelyan
scrive che
l’entrata in
guerra
dell’Italia
salva la
Francia.
Molti
storici,
inglesi e
francesi,
mostrano di
esserselo
dimenticato.
Peraltro,
l’Italia si
mise ben
presto al
passo in
termini di
armamenti ed
equipaggiamenti,
segno che il
paese aveva
potenzialità
economiche e
che la
guerra – su
questo
Martinetti
non si
sbagliava –
ha, almeno
nell’immediato,
concreti
effetti di
volano per
l’economia.
Quella
economica
può essere
dunque
annoverata
tra le
varie,
molteplici
spinte alla
guerra; ma
per i
liberali
conservatori
non era la
motivazione
principale.
In loro il
concetto di
potenza non
si declinava
tanto in
termini
economici,
quanto
soprattutto
territoriali
e di
prestigio.
Giolitti, da
parte sua,
non
rigettava la
guerra per
motivi
ideali, ma
per ragioni
eminentemente
pragmatiche;
era convinto
che l’Italia
non avesse
le risorse
sufficienti.
D’Annunzio e
i
dannunziani
lo
liquidavano
con
disprezzo
come
portatore di
una visione
bottegaia,
mediocre e
rinunciataria
dell’Italia.
Per altri
invece,
Giolitti era
un uomo
concreto e
realista,
che faceva
politica con
i mezzi a
sua
disposizione.
Ma con tutto
il suo
pragmatismo,
anche
Giolitti
sbaglia
clamorosamente
i calcoli:
non solo
l’Italia
concluderà
la guerra,
ma la vince
benché tanto
più lunga e
impegnativa
del
previsto.
Questa
Italia di
Salandra e
di Sonnino,
che porta
dentro di sé
anche quella
di Giolitti
e di Turati,
e quella dei
cattolici di
Cadorna e
dei suoi
cappellani –
questo
agglomerato
complesso e
contraddittorio,
che come
dice Ruggero
Romano
esiste da
duemila anni
come paese,
ma da poche
generazioni
in quanto
Stato,
decide di
entrare in
guerra e le
sue risorse,
materiali e
mentali, si
rivelano
bastevoli.
Su questo si
sorvola
troppo
spesso,
anche perché
la
storiografia
dell’assurdo,
che legge la
Grande
guerra come
un atto di
follia
collettiva,
frena una
compiuta
riflessione
al riguardo.
Si pensa
quasi solo a
Caporetto,
come se
fosse la
chiave e
l’esito
finale della
guerra
italiana.
Carta di
Laura Canali
LIMES
Qui lei
solleva un
punto
importante,
che consente
di
riallacciarsi
all’attualità.
Perché oggi,
più che la
vittoria,
noi
ricordiamo
la guerra?
ISNENGHI
È una
questione
centrale,
che resta
attualissima
perché
emarginata.
Ogni 4
novembre
ricevo
telefonate
di
giornalisti
che mi
chiedono di
commentare
«il giorno
della fine
della
guerra», «il
giorno delle
Forze
armate», «il
giorno
dell’unità».
E
puntualmente
mi trovo a
rivelargli
che,
nossignore,
si tratta
del giorno
della
vittoria.
Questa
ricorrenza è
stata
variamente
ribattezzata,
come se ci
si
vergognasse
di
considerare
la vittoria
una
vittoria.
Come se, per
essere
amanti della
pace oggi,
si dovesse
rimuovere
dalla
memoria
collettiva
il fatto che
l’Italia del
primo
Novecento,
pur con
tutte le sue
arretratezze
e le sue
contraddizioni,
sia riuscita
nel compito
non facile,
né scontato,
di uscire
vittoriosa
da un
conflitto di
quella
portata. Dal
punto di
vista
identitario,
questo per
noi è un bel
problema.
Certo, il
«né aderire,
né sabotare»
dei
socialisti
non sarà
stato il
massimo dal
punto di
vista
dell’immedesimazione
patriottica.
Però, a
quanto pare,
bastò. Prima
me la sono
presa con la
«vittoria
mutilata» di
D’Annunzio:
espressione
terribile,
ma
evidentemente
condivisa da
molti, data
la sua
fortuna.
Terribile
perché reca
in sé un
senso di
sconfitta
nella
vittoria, di
inadempienza,
quasi di
vacuità
dell’enorme
sacrificio
umano e
materiale.
Capisco il
«ma non per
questo» dei
mazziniani,
che nel 1861
avrebbero
voluto
un’Italia
altra
rispetto a
quella
monarchica.
Ma il «non
abbiamo
combattuto
per questo»
del 1919,
scandito a
gran voce
dalla
pattuglia di
nazionalisti
militanti,
intercetta
un
sentimento
nazionalista
ben più
diffuso e
trasversale,
micidiale
nel suo
autolesionismo.
Nel momento
in cui
l’Italia
poteva
finalmente
alimentare
forme di
autostima
collettiva
assolutamente
inusitate,
sulla scorta
di
un’impresa a
dir poco
eccezionale
come la
sconfitta
dell’impero
asburgico,
niente. Il
solo
problema,
l’unica
ossessione è
come
rapportarsi
agli slavi:
prendere o
non prendere
Fiume?
Conquistare
o no la
Dalmazia? La
pace
comincia
male fin da
subito. Con
ciò non mi
schiero, da
cittadino
del 2014,
dalla parte
dei
nazionalisti
di allora.
Cerco
piuttosto di
calarmi nel
clima
dell’epoca,
all’interno
dello spazio
e del
dibattito
pubblico
italiano
che, tra la
fine del
1918 e il
1919, ruota
in gran
parte
attorno a un
grande
quesito: che
fare della
vittoria?
Bene, c’è un
bel pezzo
d’Italia,
quella
socialista –
i comunisti
non esistono
ancora – che
pensa di
fare come la
Russia:
rivoluzione.
Il problema
dei
socialisti
non è che
manchino di
forza
politica:
alle
elezioni del
novembre
1919, con
156 deputati
sono il
primo
partito in
parlamento e
la Cgil
cresce
enormemente.
Il punto è:
che fare di
questa
forza? Qui i
socialisti,
e le
sinistre in
generale, si
scontrano
con
l’impossibilità
di
riconciliare
l’aver fatto
la guerra –
pur
controvoglia
– con il
voler fare
la
rivoluzione,
per di più
in un paese
vincitore,
non
sconfitto,
come quasi
tutti quelli
che nel
periodo
postbellico
registrano
fermenti
rivoluzionari.
Gli arditi
del popolo
sembrano
suggerire
una via: con
la guerra
abbiamo
imparato a
usare la
violenza
perché
costretti e
per scopi
che non
condividevamo,
ora usiamola
per
sovvertire
lo Stato
monarchico-liberale.
Del resto,
anche i
liberali
avevano
mostrato di
aver bisogno
del popolo
per fare la
guerra.
Perché ora
il popolo
non poteva
imbracciare
le armi e
fare la
guerra per i
propri
scopi? In
realtà,
anche gli
arditi
adottano una
posizione
difensiva
rispetto
allo
squadrismo
fascista,
dunque
mancano di
un progetto
in positivo,
che
contraddistinguerà
invece
Mussolini e
il suo
movimento.
La sinistra
massimalista
non appare
il punto di
partenza
migliore per
tentare di
stabilire,
in campo
socialista,
una
continuità –
per quanto
critica –
tra guerra,
vittoria e
dopoguerra.
Sicché alle
elezioni del
1919 il
Partito
socialista
riesce a
capitalizzare
il «no» alla
guerra,
moltiplicando
i consensi
elettorali,
ma poi non
riesce a
volgere i
numeri in
progetto.
Non riesce
nell’impresa
di
raccordare
guerra e
rivoluzione.
Ma dove
sono, in
questa fase,
gli
interventisti
democratici?
Dov’è quella
classe
dirigente
che forse
avrebbe
potuto
sostituire i
notabili
liberali?
Morti
Battisti e
Bissolati,
il politico
borghese più
avanzato e
il meno
anziano è
Francesco
Saverio
Nitti. Poi
c’è Gaetano
Salvemini,
che però non
ha la stoffa
dello
statista. E
Ivanoe
Bonomi. È
proprio lui,
il flebile
Bonomi, un
socialista
all’acqua di
rose, a
diventare
presidente
del
Consiglio.
Un uomo
portatore
delle
mediazioni
del 1914-15,
che pure non
avevano
impedito al
futuro
azionista
Guido Dorso
di scrivere
sul Popolo
d’Italia
quella frase
terribile:
«Noi
cacceremo
avanti, a
pedate nel
sedere, chi
non vuol
fare la
guerra»,
perché
sappiamo che
è giusto
farla. Un
tempo queste
parole mi
scandalizzavano,
ma a ben
vedere non è
che la
dinamica del
Risorgimento
sia stata
molto
diversa. E
forse lo
stesso può
dirsi della
Resistenza.
Purtroppo le
società,
anche nei
regimi
democratici,
devono fare
i conti con
il fatto che
le
maggioranze
non hanno
sempre
ragione.
LIMES
Cosa resta
oggi della
«più grande
Italia»?
ISNENGHI
Non è un bel
vedere.
Davanti ai
nostri occhi
si stende un
paesaggio
squallido.
Eppure,
malgrado
tutto mi
sforzo
sempre di
vedere il
bicchiere
mezzo pieno.
Di fronte a
un
Berlusconi o
a un Grillo,
mi dico che
l’Italia non
è morta nel
momento in
cui riesce a
inventare
fenomeni
politici
che, piaccia
o meno,
fanno
scuola. E mi
dico: in che
misura avere
come capo
del governo
un magnate
dei media
sarebbe
peggio
dell’avere
un
petroliere,
un generale
o il figlio
di un altro
presidente,
come
avvenuto a
più riprese
negli Stati
Uniti, paese
guida
dell’Occidente?
Forse le
ragioni
dell’ascesa
di
Berlusconi
sono le
stesse che
portarono al
potere
Mussolini:
per
governare
una società
di massa –
per giunta,
oggi,
società
dello
spettacolo –
occorre un
grande
comunicatore,
in grado di
entrare in
sintonia con
i tempi.
Sarà una
spiegazione
consolatoria,
ma credo che
non manchi
di
fondamento.
Da cittadino
antifascista
mi spiace
constatare
che l’Italia
abbia
inventato il
fascismo e
che questo,
al pari del
populismo
berlusconiano,
sia
diventato
motivo
d’attenzione
e merce
d’esportazione.
Ma come
italiano,
quando mi
sento
continuamente
rinfacciare
la
mediocrità
della nostra
storia non
posso fare a
meno di
constatare
che così
mediocre
questa
storia non è
stata. Nel
male e nel
bene: il
Risorgimento
italiano non
è affatto
una piccola
cosa,
Garibaldi e
Mazzini ce
li invidiano
in molti.
Battere l’Austria-Ungheria
non è
affatto una
piccola
cosa, come
non lo è
stato avere
il Partito
comunista
più forte
dell’Occidente
e un partito
socialista
non
risolvibile
nella
socialdemocrazia.
L’eterogeneità
dell’Italia
e le sue
fratture
politiche,
storiche e
sociali sono
state spesso
un fattore
di
debolezza;
ma sono
anche il
terreno
fecondo da
cui trae
linfa la
nostra
vicenda
storica.
Forse è
il conflitto
la vera
essenza
della nostra
identità
nazionale.
Dobbiamo
prendere
atto che
l’Italia è
un paese di
opposti. È
il paese
della
«doppia
cittadinanza»,
italiana e
cattolica,
perché il
papa non è
rimasto ad
Avignone e
con questo
dobbiamo
fare i
conti. È
stato il
paese del
fascismo e
dell’antifascismo,
e quest’ultimo
– lo dico da
antifascista
– ha ragion
d’essere
solo in
presenza del
primo. In
ultima
analisi,
siamo forse
tutti, in
varia
misura,
discendenti
del papa:
una
frequentazione
secolare ci
predispone a
seguire
leader
carismatici,
cui
tributiamo
una fedeltà
che spesso
sconfina in
devozione,
in abbandono
fideistico.
È stato così
per
Garibaldi,
Mussolini,
Berlusconi.
In parte per
Grillo e
chissà,
magari sarà
così anche
per Renzi.
Si tratta di
un
atteggiamento
molto
diffuso, che
riaffiora
periodicamente.
Ci
piacerebbe
che così non
fosse.
Ma così è.
Anche questa
è storia
d’Italia.