GAZZERA. Inserire i Forti Gazzera e Mezzacapo all’interno di un pacchetto di servizi turistici alternativi. E’ questo l’obiettivo della Marco Polo System, società per la gestione dei circuiti turistici transnazionale (è stata costituita da Comune di Venezia e dall’associazione dei Comuni greci) che sta pianificando un nuovo piano di valorizzazione a livello interregionale e transfrontaliero (verrà coinvolta anche la Slovenia) di una serie di fortificazioni che da tempo hanno perso la loro funzione originale. All’interno di questo progetto, chiamato Tudeslove (acronimo di Turismo delocalizzato Slovenia Venezia) ci sono anche le ex strutture militari del campo trincerato veneziano, tra le quali sono compresi appunti i Forti Mezzacapo a Zelarino e Gazzera in via Brendole. Nei prossimi giorni i responsabili di Marco Polo System avranno contatti con i rappresentanti dei due Quartieri, per il 10 gennaio è già stato fissato un incontro con le commissioni congiunte Lavori pubblici-Cultura di Chirignago-Gazzera. «Penso che i forti abbiano delle grandi potenzialità dal punto di vista turistico», afferma Pietrangelo Pettenò, amministratore della società, «l’obiettivo è fare sistema, creare una sorta di coordinamento tra le varie attività. Da parte nostra», aggiunge Pettenò, «stiamo preparando su mandato del Comune di Venezia uno studio sulle possibilità di utilizzo di queste aree. Investimenti? Ci saranno, riguarderanno una serie di iniziative promozionali». (m.t.)
Nell’analizzare le scelte internazionali compiute negli anni Ottanta, la storiografia ha prevalentemente cercato di sottolineare il carattere di transizione di quel decennio, che costituisce il momento di passaggio tra due sistemi internazionali molto diversi, ovvero tra l’ultima fase della guerra fredda e il periodo successivo alla dissoluzione dell’Unione Sovietica. Oppure ha preferito concentrarsi sull’«eccezionale attivismo» che, secondo Mammarella, caratterizzò la politica estera italiana nella fase centrale del decennio, collegando questo aspetto soprattutto all’esperienza del primo governo italiano a guida socialista nella storia della Repubblica. O infine di evidenziare un certo dualismo tra una tendenza volta a privilegiare la dimensione «arabo-mediterranea» della politica estera italiana e una più legata alla dimensione «euro-atlantica», tra le quali i governi Craxi sarebbero abilmente riusciti a trovare un non facile equilibrio. Tutte queste sono valutazioni sostanzialmente corrette. Tuttavia, per spiegare le scelte compiute in quel periodo è necessario sottolineare un altro importante cambiamento che avviene nella natura stessa della politica estera italiana, e che si traduce nella transizione tra due diverse tipologie che la caratterizzano, entrambe strettamente collegate ai cambiamenti più generali del sistema internazionale.
Una definizione della politica estera italiana negli anni della guerra fredda
Durante la guerra fredda la politica estera italiana fu strutturalmente diversa da quella del periodo precedente e successivo, al di là delle inevitabili linee di continuità che caratterizzano tutta la politica estera dell’Italia come Stato unitario. A questa differenziazione non sempre viene dato peso, a causa dell’inadeguatezza delle categorie analitiche alle quali non solo gli storici, ma tutti gli operatori del settore, fanno spesso riferimento, per comodità, abitudine o inerzia, al fine di capire e interpretare la storia italiana del dopoguerra e in particolare le scelte di politica internazionale. Per spiegare il processo decisionale alla base di larga parte delle scelte italiane, le analisi relative alla politica estera durante la guerra fredda continuano infatti a usare tradizionali paradigmi esplicativi quali quello del «primato della politica interna» o dell’«autonomia della politica estera» che si rivelano insufficienti da un punto di vista euristico. Nel primo caso, tutte le scelte di politica estera vengono interpretate in chiave puramente strumentale, come dettate esclusivamente da motivazioni collegate al quadro politico interno, con scarsa o nessuna attenzione alle esigenze autonome della politica internazionale. È la tesi che viene spesso riassunta nella lapidaria affermazione secondo la quale durante la guerra fredda «l’Italia non aveva una sua politica estera», ma solo «la politica estera della sua politica interna»: una volta patrimonio della sinistra, che rimproverava alla Democrazia Cristiana o al centrosinistra un supino appiattimento su posizioni atlantiste e filo-occidentali. Questa critica in tempi più recenti è stata fatta propria anche da qualche pundit di centrodestra e sembra entrata a far parte della vulgata della storia italiana del dopoguerra, per cui una volta fatte le scelte di fondo (l’adesione al Patto atlantico, la scelta europeista) la politica estera italiana sarebbe consistita in un quarantennio di sostanziale sopore e grigiore. Nel secondo caso, quello in cui si tende a sottolineare la maggiore autonomia, spesso per reazione alla banale semplificazione precedente, si tende invece ad analizzare le scelte di politica internazionale prescindendo quasi completamente dal quadro di riferimento interno, e spiegandole in base al puro calcolo della politica di potenza tipico della diplomazia tradizionale, come se l’Italia repubblicana dal 1945 al 1989 fosse stata uno Stato «normale» (ammesso che quello di «normalità» sia un concetto spendibile in campo scientifico) come la Gran Bretagna o gli Stati Uniti, e non un paese profondamente diviso e lacerato sul piano politico interno, con due opposte fazioni che per oltre trenta anni si sono prefisse obiettivi quasi diametralmente opposti.
Il dibattito sul rapporto tra politica estera e politica interna (e in particolare sulla predominanza dell’una sull’altra) non è una novità del periodo della guerra fredda, ma è vecchio quanto l’esistenza dello Stato italiano, o forse addirittura ne precede la creazione: basti citare per tutti il «Mussolini» diplomatico di Salvemini, nel quale si rimproverava al duce di fare una politica estera a fini puramente strumentali di politica interna. Negli anni dell’Italia repubblicana e della guerra fredda, una delle formulazioni più note fu quella dello storico americano Norman Kogan, che vedeva la politica estera italiana come una vera e propria quantitè negligèable, un’appendice scarsamente significativa del processo politico interno e, di questo, una variabile del tutto dipendente. Tuttavia se quella dicotomia interno/esterno può avere un senso per il periodo precedente alla seconda guerra mondiale, o successivo alla guerra fredda, sembra molto meno utile per capire quanto accade tra il 1945 e il 1991. Lo scenario della guerra fredda nel quale furono prese molte decisioni di politica estera durante la prima Repubblica era infatti molto più complesso, poiché in esso prevaleva un’interdipendenza tra politica interna e politica estera che va indagata secondo categorie interpretative che non riducano l’una a semplice appendice dell’altra, ma che ne evidenzino l’intreccio. Questo è ciò che fa, ad esempio, Raymond Aron con il concetto di «guerra civile internazionale», che egli applica a quei periodi dove il confronto tradizionale basato sulla politica di potenza viene rafforzato da un contrasto ideologico o religioso, che attraversa i confini e le barriere e riproduce all’interno di uno Stato le divisioni del sistema internazionale.1 Proprio a causa della profonda divisione tra le sue principali forze politiche, l’Italia della guerra fredda era un paese di frontiera e spesso un teatro, oltre che un protagonista, della guerra fredda – e questo ben oltre la fase cruciale dell’immediato dopoguerra. Ogni scelta di politica internazionale aveva cioè una sua forte valenza di politica interna, così come molte decisioni di politica interna avevano una forte ricaduta sulla posizione internazionale dell’Italia: basti pensare, per fare due esempi quasi scontati, all’adesione al Patto atlantico da un lato, o alle elezioni del 18 aprile 1948 dall’altro; ma anche alle scelte europeiste del 1955-57 o atlantiche del 1958, compiute anche per esorcizzare le pulsioni neutraliste del progetto del centrosinistra. Oppure, alla doppia scelta di schierare gli euromissili nel 1979 e nel 1983. In tutti questi casi si trattava di ribadire la posizione occidentale dell’Italia, una scelta che almeno fino al 1976 (fino alla famosa intervista di Berlinguer sull’«ombrello» della NATO) era contestata da circa il 25-30% dell’elettorato e faceva della collocazione stessa dell’Italia sullo scacchiere internazionale un elemento di contesa tanto tra le superpotenze quanto tra la forze politiche interne.
Il nuovo che avanza?
Fermo restando che nelle moderne società democratiche è impossibile analizzare la politica estera di uno Stato prescindendo dal quadro di riferimento nel quale essa viene elaborata, e che quindi il rapporto tra quadro internazionale e sistema politico interno deve essere sempre tenuto presente, è pur vero che negli anni Ottanta si comincia a intravedere un diverso modello di politica estera italiana, in cui l’intreccio tra i due piani – quello interno e quello internazionale – diventa molto meno forte e meno vincolante che nel periodo precedente. Nell’arco di quel decennio infatti, dopo la drammatica recrudescenza della guerra fredda nei primi anni Ottanta, si assiste a una sua progressiva attenuazione e all’evoluzione verso un sistema internazionale diverso, il che parallelamente fa sì che sul piano interno in Italia si sviluppi e si rafforzi una tendenza verso l’elaborazione di una politica estera che riscuota un maggiore consenso da parte delle principali forze politiche.
Su questa evoluzione della politica estera italiana influì in maniera crescente il cambiamento della situazione politica interna e in particolare il progressivo avvicinamento del PCI alle posizioni dei partiti di governo. La ricerca di una collaborazione tra il PCI, la DC e le altre principali forze politiche aveva inevitabilmente posto le basi fin dagli anni Settanta per una politica estera, di sicurezza e difesa che potesse finalmente prescindere dalle preoccupazioni legate al «fronte interno» e potesse invece contare anche sul sostegno della sinistra comunista, o perlomeno di una parte di essa. La strada della legittimazione del PCI come forza di governo passava perciò attraverso l’accettazione sia del processo di integrazione europea sia dell’Alleanza atlantica, ma soprattutto del fatto che l’Italia potesse svolgere in entrambi quei contesti un ruolo attivo e di primo piano, il che spesso poteva implicare per il PCI non solo limitarsi ad approvare più o meno obtorto collo lo status quo, ma anche assumersi la responsabilità di scelte molto difficili e controverse. Non era però facile per il PCI compiere un simile percorso in tempi brevi. E se era relativamente più semplice accettare taluni aspetti della politica estera, come il processo di integrazione europeo, molto più arduo era, ad esempio, accettare una nuova visione della tutela della sicurezza nazionale che implicasse una politica di difesa di più alto profilo rispetto al passato. Il limite dell’avvicinamento degli anni Settanta era stato forse proprio questo, e cioè la ricerca di un minimo comune denominatore tra i vari partiti politici al livello più basso, costringendo la politica estera italiana a un progressivo inaridimento. Per quasi tutta la prima metà degli anni Ottanta il PCI, pur avendo completamente abbandonato l’anti-atlantismo e l’anti-militarismo aprioristici del passato, non riuscì perciò ad accettare e condividere molte delle scelte attinenti alla politica di sicurezza compiute dai governi in carica, e se su alcune di quelle fu possibile trovare un compromesso – come la seconda missione a Beirut – altre furono oggetto di scontri molto aspri, come nel caso della Forza di osservatori nel Sinai (MFO) o, caso ancor più noto, lo schieramento degli euromissili. Fin quando il sistema internazionale rimase bipolare e improntato alla logica della guerra fredda, quindi, il Partito comunista incontrò molte difficoltà nel venire a patti con una politica filo-occidentale di alto profilo che in ultima analisi contraddiceva la sua stessa identità.
Quando invece iniziò una progressiva trasformazione del sistema internazionale a partire dalla seconda metà del decennio, le cose mutarono. La nuova distensione introdotta nelle relazioni bipolari da Gorbaciov e Reagan a partire dal 1985-86 prefigurava infatti uno scenario di graduale smantellamento delle strutture politiche e concettuali della guerra fredda, che non poteva non avere ricadute profonde anche sul modo in cui la classe politica italiana avrebbe concepito il ruolo dell’Italia nel nuovo sistema internazionale. D’altro canto, la prospettiva della fine della guerra fredda, o comunque di una distensione tra i blocchi che appariva di un’ampiezza senza precedenti, non solo costringeva la sinistra comunista a ripensare la sua stessa identità, ma rendeva tanto più impellente anche un ripensamento della politica estera italiana. I mutamenti strutturali del sistema internazionale eliminavano infatti anche alcuni dei punti di riferimento ai quali nel corso di quaranta anni ci si era sistematicamente appoggiati: l’Alleanza atlantica da un lato e il processo di costruzione europeo dall’altro. L’esistenza di una «minaccia comunista» sul piano interno, vera, presunta o artatamente esasperata che fosse, aveva infatti costituito uno dei principali motivi per cui l’Italia aveva potuto contare sull’attenzione degli Stati Uniti durante la guerra fredda. Ma la prospettiva del venir meno del principale motivo di interesse americano per l’Italia – anche se senza dubbio ne sussistevano altri – poneva un grosso interrogativo sul futuro delle relazioni con il principale alleato. Veniva meno, in altre parole, quella che talora è stata definita un po’ cinicamente come «la rendita di posizione» dell’Italia durante la guerra fredda, il motivo per cui a Roma si faceva affidamento sulla possibilità di poter sempre contare sul sostegno di Washington. Del pari, la transizione verso un sistema internazionale diverso – di cui a partire dal 1987-88 si cominciano chiaramente a percepire i segnali, anche se in pochi immaginavano l’ampiezza dei rivolgimenti che si sarebbero susseguiti nei due-tre anni successivi – coglieva il processo di costruzione dell’Europa ancora in una fase di incertezza profonda, in cui ai motivi di soddisfazione per aver avviato il processo di completamento del Mercato comune con l’Atto Unico si affiancavano le frustrazioni legate al fallimento dei progetti più ambiziosi di taglio federalista sponsorizzati dall’Italia negli anni precedenti. Anche in ambito europeo, in altre parole, era tutt’altro che chiaro quale sarebbe stato il contesto in cui l’Italia si sarebbe trovata ad agire di lì a qualche anno.
Questa sensazione di crescente incertezza che caratterizzò il sistema internazionale nella seconda metà degli anni Ottanta accelerò dunque il processo di ripensamento della politica estera italiana verso linee di maggior coesione. La ricerca di un maggior consenso interno sulla politica estera, di una politica estera meno divisiva e più condivisa, cominciata già negli anni Settanta, ricevette perciò un ulteriore, fortissimo impulso dalle prospettive di cambiamento degli ultimi anni Ottanta. L’improvvisa accelerazione degli eventi a partire dal 1989, con la liberazione dell’Europa orientale e infine la scomparsa dell’Unione Sovietica, trasformarono poi definitivamente quel sistema internazionale che aveva così profondamente influito sulla natura stessa del sistema politico italiano, rendendo inevitabile non solo un cambiamento della sua politica estera ma anche un profondo mutamento all’interno delle forze politiche che lo costituivano, contribuendo al tempo stesso a ridefinire il rapporto tra politica estera e politica interna in modo diverso dal passato. Alla fine del decennio stava per scomparire la grande dicotomia del sistema internazionale e si avviava perciò ad analoga fine quello iato del sistema politico italiano che di quella dicotomia, pur con tutte le sfumature, le eccezioni e i «distinguo» relativi alla «diversità» dell’esperienza del PCI, costituiva la trasposizione sul piano interno.
La politica estera italiana negli anni Ottanta
Se si analizzano i vari momenti della politica estera italiana dei «lunghi anni Ottanta» – del decennio che va dal riacutizzarsi della guerra fredda con l’invasione sovietica dell’Afghanistan e la decisione NATO del «doppio binario» nel dicembre 1979 fino alla dissoluzione dell’Unione Sovietica nel dicembre 1991 – è sin troppo facile constatare la presenza di elementi di entrambe le sue tipologie, tanto quella caratteristica della guerra fredda quanto quella meno vincolata alla logica del confronto bipolare. E se è relativamente semplice individuare una tendenza di fondo che va verso la «nuova» politica estera, è tutt’altro che facile individuare un momento di cesura, una soglia spartiacque che segni la fine di una impostazione e la definitiva affermazione dell’altra.
I governi guidati da Craxi, in particolare, si trovarono a gestire nella fase centrale del decennio proprio il momento in cui la transizione dall’una all’altra fase era in pieno sviluppo e le contraddizioni più accentuate. L’esperienza del primo governo a guida socialista della storia italiana coincide così con un periodo in cui le regole del gioco stavano cambiando e si assisteva a una radicale trasformazione del nesso tra sistema internazionale e sistema politico interno. Solo se si tiene presente questo scenario di fondo si possono capire certe apparenti contraddizioni delle scelte compiute nel periodo tra il 1983-1987.
La decisione di schierare gli euromissili a Comiso – in entrambe le sue tappe, quella del 1979 e quella del 1983 – può essere interpretata alla luce del paradigma della guerra fredda, e anzi ne costituisce per molti aspetti un’applicazione esemplare, sia pure con alcuni risvolti inconsueti. La scelta italiana di schierare i Cruise è stata spesso spiegata facendo riferimento in modo quasi esclusivo al quadro politico interno. Non c’è dubbio, in effetti, che il tema della solidarietà occidentale e della necessità che l’Italia adempisse ai suoi doveri e alle sue responsabilità di partner dell’Alleanza atlantica fu senz’altro sfruttato dai politici della nuova maggioranza del pentapartito per influenzare il nuovo corso della politica italiana, allontanare la possibilità di un ritorno alla logica del compromesso storico e mantenere il PCI all’opposizione, mettendolo di fronte all’alternativa tra rimanere isolato o compiere delle scelte che l’avrebbero costretto a completare il suo processo di trasformazione e sganciamento dall’Unione Sovietica. Al tempo stesso, però, quella scelta può anche essere interpretata come il frutto della necessità di dimostrare sul piano internazionale la rinnovata vitalità della politica estera italiana, che aveva attraversato una lunga fase di stagnazione, nel corso della quale il «peso specifico» dell’Italia come attore internazionale si era fortemente ridimensionato fino ad arrivare all’imbarazzante esclusione da un vertice importante come quello della Guadalupa tenutosi nel gennaio del 1979 da Carter, Giscard, Callahan e Schmidt.
Pertanto la decisione del dicembre del 1979 ottemperava al duplice scopo di testimoniare il ritrovato dinamismo della politica estera italiana e di mettere in difficoltà il PCI, che dopo alcune incertezze iniziali cercò di giocare la carta della «opposizione leale», rivendicando il suo diritto a contestare la scelta di schierare i missili pur restando fedele alla NATO. Per la nuova coalizione, e soprattutto per quei partiti che miravano a rendere difficile se non impossibile il ritorno del PCI nella maggioranza, fu facile accusare il Partito comunista di doppiezza e mantenerlo ai margini – in questo aiutati probabilmente dalla decisione dello stesso PCI di provare a cavalcare la tigre della protesta di massa contro le nuove armi a partire dal 1982-83. Grande abilità, in questo gioco, mostrò dunque Craxi, che della vicenda degli euromissili si servì per indicare agli Stati Uniti che dal punto di vista della affidabilità atlantica la sua leadership valeva quanto quella di un qualunque democristiano, usando così il test della sua fermezza in ambito atlantico sia contro il PCI sia contro la stessa DC.
Si deve tuttavia aggiungere, per valutare appieno il senso della scelta italiana a favore degli euromissili, che scelte analoghe, compiute sulla base di un mix di considerazioni di politica interna e di politica estera, erano state fatte per quasi tutto il corso della storia dell’Italia repubblicana. Come si è cercato di spiegare all’inizio, infatti, nel contesto internazionale della guerra fredda era praticamente impossibile separare rigidamente i due campi, ed era inevitabile che decisioni volte a ribadire l’appartenenza dell’Italia a uno dei due schieramenti avessero poi un peso politico interno estremamente rilevante. Persino nei primi anni Ottanta, dunque, il test dell’atlantismo continuava a essere uno strumento importante della vita politica italiana, utilizzato non solo per rilanciare il prestigio internazionale ogniqualvolta si avvertiva la sensazione che l’Italia corresse il rischio di essere lasciata ai margini da vicende importanti, ma anche per ancorare saldamente all’occidente un sistema politico potenzialmente soggetto a pericolosi sbandamenti. Da questo punto di vista, l’unica differenza tra la decisione del 1983 e quelle degli anni precedenti stava nel fatto che per la prima volta la decisione veniva presa da un politico socialista e non da un democristiano. L’altro episodio importante della prima metà degli anni Ottanta, la partecipazione alla forza multinazionale di pace a Beirut tra il 1982 e il 1984, costituì invece un primo importante momento di cambiamento non solo per l’utilizzazione delle Forze Armate italiane,2 ma soprattutto per il rapporto tra le forze politiche, che a quella missione dettero un sostegno quasi unanime, in particolare nella sua seconda fase, svoltasi nel settembre 1982 dopo l’omicidio del presidente libanese Gemayel e i massacri di Sabra e Chatila. Anche il PCI, che fino a poco prima aveva duramente avversato la partecipazione italiana alla missione della forza multinazionale di osservatori nel Sinai incaricata di verificare l’applicazione degli accordi di Camp David, approvò il ritorno in Libano delle forze italiane sull’onda emotiva suscitata dalle sofferenze dei profughi palestinesi.
Così come l’accordo relativo al dispiegamento dei Cruise in qualche modo può essere visto come il simbolo della tipologia tradizionale della politica estera e di sicurezza, quella profondamente influenzata dalla logica della guerra fredda, la missione libanese, pur tenendo presenti le circostanze particolari in cui si verificò, nelle quali giocò un ruolo importante l’impatto emotivo delle immagini degli eccidi compiuti nei campi palestinesi, può essere interpretata come l’archetipo del nuovo possibile modello di sviluppo della politica estera. Una tipologia di missione che con il tempo avrebbe consentito non solo ai militari di recuperare legittimità e spazio di manovra all’interno del dibattito politico nazionale, ma avrebbe altresì permesso alle forze politiche della sinistra ex-comunista, ansiose a loro volta di recuperare credibilità e di accreditarsi come legittime e responsabili forze di governo, di accettarne e farne proprie le linee di fondo, sia pure con la continua ricerca di sfumature lessicali che rendessero tali missioni più accettabili al proprio elettorato.
Gli altri temi centrali nell’evoluzione della politica estera degli anni Ottanta confermano questo crescente allargamento del consenso interno nei confronti delle scelte di politica internazionale, e quindi la progressiva riduzione dell’elemento conflittuale legato agli schemi della guerra fredda. L’europeismo, in particolare, sia pure inteso in un’accezione spesso sin troppo generica e tanto carica di slancio ideale quanto poco attenta ai contenuti concreti, si avviava a divenire un patrimonio comune di tutte le forze politiche, e su quel terreno il dialogo tra forze di governo e opposizione era destinato a svolgersi con relativa facilità. La spinta innovativa impressa dal governo italiano al processo di costruzione dell’Europa con la difficile scelta di usare la formula del voto a maggioranza al Consiglio europeo di Milano del 1985 per indire una Conferenza intergovernativa che lavorasse sul progetto di Unione politica costituì perciò un altro passaggio importante verso la condivisione, da parte di tutte le forze politiche, di decisioni tanto scomode quanto importanti. A cavallo della metà degli Ottanta, infatti, si completò il processo di sostanziale allineamento del PCI sulla prospettiva di un europeismo improntato all’ispirazione federalista sostenuta dal governo in pieno accordo con il progetto di sviluppo lanciato dal Parlamento europeo e da Altiero Spinelli negli anni precedenti. La scelta di Craxi e Andreotti di forzare la mano, a Milano, verso una svolta nel processo di costruzione dell’Europa fu dunque un altro momento di aggregazione delle principali forze politiche verso una politica estera «nazionale».
Analogo ragionamento si può probabilmente fare a proposito del sostegno dato alla perestrojka del nuovo segretario del PCUS Michail Gorbaciov, la cui ricerca di una politica di distensione con l’Occidente trovò in Italia ampi sostegni presso quasi tutte le forze politiche. Alla fine degli anni Settanta e nei primi anni Ottanta la campagna avviata dal PSI a sostegno dei dissidenti dei paesi dell’Est era stata usata in maniera da far emergere le contraddizioni del PCI e del progetto eurocomunista, e per stimolarne un ulteriore allontanamento dalla propria matrice identitaria. Quel tipo di Ostpolitik da parte del PSI rientrava quindi ancora nella logica della guerra fredda e della contrapposizione; tuttavia, a partire dalla metà del decennio, e in particolare dopo l’arrivo di Gorbaciov, il Partito socialista e il suo leader non mancarono di rinnovare segnali di attenzione nei confronti della nuova leadership sovietica e dei paesi dell’Est, prospettando un dialogo con tutto il blocco orientale che ne favorisse le tendenze riformiste e contribuisse al generale allentamento della pressione autoritaria avviato dalle iniziative del nuovo segretario del PCUS. Su un’impostazione politica di questo genere, ovviamente, potevano riconoscersi quasi tutte le forze politiche italiane.
Minore peso, da questo punto di vista, dovrebbe invece essere attribuito a un episodio che viene spesso citato come momento «alto» di una politica estera più autonoma e basata su un’ampia convergenza delle forze politiche interne, vale a dire la crisi nei rapporti con gli Stati Uniti legata alla crisi di Sigonella. Per quanto spesso venga enfatizzata attribuendole un’importanza notevole, la vicenda di Sigonella e del contrasto con gli Stati Uniti in merito all’operazione che portò all’arresto dei terroristi palestinesi che avevano effettuato il dirottamento della motonave Achille Lauro e perpetrato l’uccisione di Leon Klinghoffer, costituisce un episodio circoscritto e isolato che, pur costituendo una grave crisi nel contesto delle relazioni bilaterali con Washington, non ebbe particolari conseguenze sul piano internazionale e deve essere perciò interpretata non come un passaggio nell’elaborazione di un disegno più vasto ma in base alla sua natura di singolo evento. È semmai la politica medio-orientale seguita complessivamente dai governi Craxi-Andreotti, e in particolare l’attenzione rivolta da Craxi alle ragioni del movimento palestinese e del suo leader Yasser Arafat, che va vista come un altro momento dell’elaborazione di una politica estera meno legata ai parametri della guerra fredda, nella quale potesse riconoscersi un numero crescente di forze politiche.
Nel corso degli anni Ottanta si verificò dunque una progressiva trasformazione della natura della politica estera italiana, proprio perché mutarono gradualmente i due quadri di riferimento, quello interno e quello internazionale, tra cui essa doveva svolgere la sua azione di filtro e di raccordo. Questo processo di trasformazione non significò che a partire dalla fine della guerra fredda si sarebbe dato vita a una politica estera consensuale e priva di motivi di contrasto, ma semplicemente che le scelte successive, spesso anche molto drammatiche e sulle quali si sarebbero inevitabilmente verificati scontri quanto mai accesi, non avrebbero più avuto lo scopo di ribadire l’identità internazionale dell’Italia, la sua appartenenza a un blocco invece che all’altro. Nell’analizzare la politica estera dei governi a guida socialista a metà degli anni Ottanta questa considerazione di fondo deve essere costantemente tenuta presente per spiegarne quelle che altrimenti potrebbero sembrare stridenti contraddizioni: le scelte di Craxi di accettare gli euromissili, di spingere il Consiglio europeo di Milano verso una scelta difficile, di lavorare per facilitare il dialogo con Gorbaciov o la distensione nel Mediterraneo, non possono essere ricondotte tutte a una logica di personalistico attivismo o di ansia di protagonismo, ma vanno inquadrate in un contesto più ampio che consenta di spiegare perché quell’attivismo fu possibile. Una volta ribadita con fermezza l’appartenenza dell’Italia al campo occidentale e date ampie garanzie all’alleato americano che l’Italia restava fermamente allineata all’Occidente anche con un governo a guida socialista, i governi Craxi si trovano a poter sfruttare le due tendenze parallele del maggior dialogo tra le forze politiche interne e della ricerca di una politica estera «nazionale», e quindi a muoversi sulla scena politica internazionale con maggiore dinamismo che in passato. Quando poi si cominciò a intravedere l’evoluzione del sistema internazionale verso scenari molto diversi dal passato, l’iniziativa internazionale dell’Italia si adeguò al processo di cambiamento cercando al tempo stesso di muoversi su un terreno che facilitasse il processo di conversione della sinistra comunista fino a farle condividere le scelte di fondo più importanti.
Tutto questo però richiese un tempo di metabolizzazione piuttosto lungo, soprattutto perché, come ha scritto l’ambasciatore Ferraris, «la sinistra non riesce a liberarsi delle perduranti diffidenze, fino all’ostilità, verso ogni decisione atlantica o “occidentale”: il condizionamento sovietico continua a stendere la sua ombra».3 Se infatti da un lato la ricerca di una collaborazione del Partito comunista con la DC e le altre principali forze politiche rendeva inevitabile cominciare a porre le basi per una politica estera, di sicurezza e difesa che potesse finalmente prescindere dalle preoccupazioni legate al «fronte interno» e potesse invece contare anche sul sostegno del PCI, non era però facile per quest’ultimo accettare una nuova visione della tutela della sicurezza nazionale che implicasse una politica di difesa di più alto profilo rispetto al passato. L’Europa, il dialogo con il mondo arabo, e il sostegno per la perestrojka sovietica erano tutte scelte sulle quali era più facile trovare una piattaforma comune. Molte scelte di politica di difesa, invece, continuarono a costituire una sorta di discriminante tra governo e opposizione per quasi tutti gli anni Ottanta, nonostante il PCI avesse progressivamente abbandonato le posizioni rigide del passato. Anzi, come al tempo della fase più acuta della guerra fredda, alcune scelte di politica internazionale furono probabilmente compiute anche con una particolare attenzione alle loro ripercussioni sulla scena politica interna e all’opportunità che esse offrivano di mantenere il PCI all’opposizione. Solo negli anni Novanta si sarebbe infatti sviluppata appieno la sintesi tra una maggiore autonomia delle scelte di politica di difesa all’interno del quadro atlantico e le novità introdotte nella scena politica dalla trasformazione del PCI, e quindi dalla fine dell’esclusione di una parte delle forze della sinistra dall’area di governo, con la crescente importanza attribuita nella politica estera e di difesa italiana alla partecipazione alle missioni internazionali a sostegno della pace.
Bibliografia
1 R. Aron, Gli ultimi anni del secolo, Mondadori, Milano 1984, p. 201.
2 Fino ad allora l’Italia aveva partecipato a operazioni di peacekeeping con un numero sempre molto ristretto di militari, mentre in Libano per la prima volta fu impiegato un contingente molto ampio in cui ai soldati di professione si accompagnava un numero elevato di militari di leva. Sull’importanza politica della missione cfr. L. Lagorio, L’ultima sfida. Gli euromissili, Loggia de’ Lanzi, Firenze 1998, pp. 114-115. Più in generale, cfr. F. Angioni, Un soldato italiano in Libano, Rizzoli, Milano 1984; L. Caligaris, Western Peacekeeping in Lebanon: lessons of MLF, in «Survival», 6/1984, pp. 262-268; Libano: missione compiuta, in «Rivista Militare», 5/1984, p. 164; G. Lundari, Gli Italiani in Libano, 1979-1985, Editrice Militare Italiana, Milano 1986; G. Nebiolo, Gli Italiani a Beirut, Bompiani, Milano 1984; A. Sion, Libano. Il contingente militare italiano, in «Rivista Militare», 1/1984, pp. 23-31.
3 L.V. Ferraris, Intervento, in E. Di Nolfo, La politica estera italiana negli anni Ottanta, Piero Lacaita editore, Bari 2003, p. 322.