Lavori in vista per forte Garda
Da Il
Trentino - 21 dicembre 2013 — pagina 35 sezione:
Nazionale
RIVA Il
primo centenario della Grande Guerra è ormai alle
porte e così parte l'intervento di salvaguardia
deciso dal Comune per il recupero almeno parziale
delle fortificazioni austriache del monte Brione.
Nei mesi scorsi l'amministrazione aveva fatto
stendere ad Andrea Rigo dello studio Plan
Architettura di Arco un progetto che prevedeva una
spesa di 710 mila euro per rendere visitabili forte
Garda e la Batteria di Mezzo. Si tratta di un
intervento leggero, finalizzato alla messa in
sicurezza delle fortificazioni, senza prevederne
(com'è accaduto in anni lontani, per il forte
superiore di Nago) destinazioni di tipo culturale.
L'amministrazione ha invitato 12 ditte a presentare
offerte per i lavori a base d'asta (564 mila euro),
10 hanno risposto, 8 sono state giudicate
inammissibili: delle due rimaste la Edilux di
Cavedine, con un ribasso del 14,329% ha battuto la
Ediltione che s'era fermata al 14, 143. L'appalto,
per un totale di 489.561 euro -tutto compreso- sono
giudicati urgenti per cui la consegna potrà avvenire
in tempi rapidissimi.
Approvato il progetto per restaurare il forte
Da Il
Trentino -
19 dicembre
2013 — pagina 42 sezione: Nazionale
CIVEZZANO
Il consiglio comunale ha approvato il progetto di
restauro del forte austro ungarico “Tagliata
Superiore” situato sulla strada dei Forti che
collega Civezzano a Cognola. Oggi di proprietà
comunale, il “complesso fortificato” di Civezzano,
posto su due livelli stradali, faceva parte delle
fortificazioni della Fortezza di Trento, che in
vista del centenario dell’inizio della I Guerra
Mondiale, vede impegnata l’amministrazione comunale
al suo restauro. L’assessore Stefano Bampi ha
illustrato il progetto, che prevede il rifacimento
del manto di copertura e il ripristino del sedime a
verde, interventi alle mura perimetrali,
sistemazione dell’accesso, interventi agli spazi
interni, alla pavimentazione, rifacimento
dell’impianto elettrico. La spesa complessiva è di
228.000 euro, con un forte contributo delle
Provincia. Il consiglio comunale si è pronunciato a
favore della deroga urbanistica per opere pubbliche,
relativa alla realizzazione di un piccolo parcheggio
e dei servizi esterni. Il forte, che ha una
superficie interna di circa 600 mq, è in affitto
alla cantina Simoni per un importo annuo di 9.000
euro.
Assai critiche le minoranze sull’entità
dell’affitto, per di più ad un’azienda non di Civezzano, con voto contrario alla deroga
urbanistica. In apertura di seduta, tra le
comunicazioni, il sindaco Stefano Dellai ha
comunicato che con procedura d’urgenza si interverrà
per togliere dall’impianto idrico comunale, già
entro Natale, le acque delle sorgenti Grave, Ost,
Salare, Giardini e Canevine, situate nella parte
alta del territorio comunale, a causa della
percentuale di piombo contenuta, superiore ai nuovi
parametri di legge. Il problema era emerso alcuni
mesi fa e l’amministrazione comunale si era
impegnata a predisporre un progetto per risolvere la
situazione. Il progetto è pronto e i lavori per
bypassare quelle sorgerti dovrebbero iniziare nel
2014, per concludersi tra giugno e luglio. Il
consiglio comunale ha anche nominato il dott. Andrea
Tamanini nuovo revisore dei conti per il triennio
2014 – 2016. (f.v.)
Un tour Grande Guerra
Da
il Giornale di Vicenza - 15 dicembre 2013
Sui fronti del Triveneto il Centenario della Grande
Guerra è già iniziato. Con un anno e passa di
anticipo sul calendario.A prendersi avanti con le
iniziative storiche e turistiche sono i territori
che nel 1914 - quando il conflitto deflagrò tra
Imperi Centrali e Triplice intesa
russo-franco-inglese - erano ancora al di là del
confine: quell'Italia Irredenta per la quale gli
eserciti del Regno sarebbero stati mobilitati nel
maggio del 1915.
Lì ai margini dell'italianità - in Trentino e in
quella che ancora non si chiamava Venezia Giulia - i
ventenni che parlavano quasi lo stesso dialetto dei
veneti furono chiamati alle armi a fine estate del
'14. Furono vestiti con le divise austriache dei
Tiroler Kaiserjäger o degli imperial-regi Landwehr
Infanterieregiment e partirono per il fronte
orientale: la Serbia, la Romania, la Bucovina,
l'Ucraina, i Carpazi, la Galizia oggi polacca. E
così tra Trento, Trieste e Gorizia la guerra viene
oggi ricordata anche con i nomi, i volti e le croci
di quei giovani italiani che combatterono per
l'impero asburgico nella sua ultima vicenda; e con
le storie delle famiglie sotto sovranità austriaca
che, quando l'Italia attaccò sulle montagne e sul
Carso, furono sfollate in sperduti borghi
dell'Europa Centrale.
La loro memoria, che appunto anticipa al 1914 i
cent'anni dalla Prima guerra mondiale, si salda -
nelle proposte di visita e di conoscenza - con
quella delle truppe tricolori che poi combatterono
per tre anni e mezzo sui difficili fronti delle
Alpi, del Pasubio, del Lagorai e delle Dolomiti; sul
Carso isontino e sulle Prealpi Giulie e, dopo la
disfatta di Caporetto nel 1917, nella zona collinare
lungo la linea del Tagliamento.
TRENTINO. La Prima guerra mondiale ha lasciato
tracce indelebili sulle montagne trentine: trincee
che segnano i versanti delle valli e le altimetrie
montane, disseminate di resti di capisaldi e
batterie di fuoco; fortificazioni hanno cambiato per
sempre il paesaggio; siti d'alta quota dove si
ritrova l'asprezza della “guerra bianca”.
Cimiteri, monumenti e musei costellano l'intero
territorio provinciale. Le occasioni di visita,
proposte dal Museo storico di Rovereto, sono
rintracciabili a partire dal sito
www.trentinograndeguerra.it.
Tra gli itinerari più facilmente raggiungibili dal
Vicentino ci sono quello della montagna tra i passi
Buole e Zugna, sopra la Vallarsa e in vista del
Pasubio, e il Tour dei Forti degli Altopiani di
Folgaria e Lavarone.
CARNIA E TARVISIANO. Dove era impossibile la guerra
di movimento - che spezzò milioni di vite sui fronti
russo e francese - il conflitto fu logorante guerra
di posizione. Come avvenne tra le montagne carniche,
dove si rintracciano facilmente camminamenti,
torrette di osservazione, gallerie e fortini. E dove
si riscopre la storia delle "portatrici", ragazze e
donne che tenevano i collegamenti con le trincee in
prima linea, marciando con le loro gerle cariche di
cibo e munizioni. Pacchetti turistici per la
conoscenza delle memorie storiche, anche in ambito
transfrontaliero con la Slovenia, sono proposti su
www.turismofvg.it.
L'ISONZO. La Provincia di Gorizia ha lavorato per
anni alla messa a sistema di "Carso 2014+", un
complesso di proposte che fanno conoscere -
percorrendo una sorta di diffuso museo a cielo
aperto - gli aspetti culturali, storici, ambientali
ed enogastronomici del Carso isontino. Queste le
tappe principali dei percorsi già attivi da queste
settimane e fino a tutta la primavera prossima: il
Museo provinciale di Gorizia dove sono ricostruite
postazioni e trincee, la Zona Sacra del Monte San
Michele con lo Schönburgtunnel scavato dagli
austriaci, le cannoniere in galleria del Monte
Brestovec vicino a Doberdò del Lago, il Parco
Tematico presso la stazione ferroviaria di
Monfalcone. E al di là del confine, a nord di
Gorizia, il Parco della Pace del Monte Sabotino (Sabotin
Park Miru) fa percorrere un itinerario lungo la
seconda linea difensiva austro-ungarica conquistata
durante la Sesta Battaglia dell'Isonzo (1916).
Riferimenti per le visite: il sito www.carso2014.it
e l'associazione culturale "èStoria"
(www.estoria.it). Il tutto è coordinato a livello
interregionale nel progetto “Itinerari della Grande
Guerra. Un viaggio nella storia” (
www.itinerarigrandeguerra.it) nel quale il Museo del
Risorgimento di Vicenza svolge un ruolo centrale per
il Veneto.Antonio Trentin
Russia:
al via i test della rete radar Container |
Da
analisidifesa.it del 14 dicembre 2013 |
Iniziati
il 2 dicembre scorso i test operativi
del nuovo sistema radar Container, rete
di rilevamento a lungo raggio per il
controllo dello spazio aereo russo
sviluppato dall’agenzia scientifica
Distant Radiocommunication Scientific
Research Institute (NPK NIIDAR), società
con sede a Mosca che realizza sistemi
radio complessi e prodotti scientifici e
tecnici per uso civile e militare.
Situato nei pressi di Kovylkino, città
della Repubblica russa di Mordovia, il
centro operativo del nuovo sistema radar
controllerà un range di circa 3.000
chilometri (1.800 miglia), una copertura
spaziale che include gran parte del
continente europeo.
Secondo i vertici militari il sistema
Container dovrebbe essere dichiaro
pienamente operativo entro il 2015; una
volta integrate nella struttura di
Difesa aerea e antimissile (PVO-PRO), le
stazioni che andranno a formare la rete
saranno in grado di intercettare anche i
velivoli di piccolissime dimensioni.
Alla stampa il ministro della Difesa,
Sergey Shoygu, ha dichiarato che la
Russia è intenzionata ad espandere verso
occidente il proprio range di controllo
dello spazio aereo; nessuna informazione
è stata rilasciata circa le date, il
numero di stazioni e i siti che andranno
a comporre la rete di stazione radar
Container. Fonte: IT log defence
(http://logdef.blogspot.it/)
|
Dal Molin
story, figlia di Ederle. Ponzio Pilato? Abita qui |
Da
quadernivicentini.it 7 dicembre 2013 |
Tutto
si forma in un clima molto soft. Erano
tutti molto soft. Le notizie ufficiali.
Perfino i documenti (che non c’erano).
La politica internazionale. Le smentite,
le conferme: tutte soft. Come ai tempi
della Ederle, “quando gli Americani
arrivarono quasi senza farsi sentire”
(Goffredo Parise). Il sindaco di Vicenza
era ultra-soft, trasparente. Così
l’assessore Cicero. Il ministro della
difesa, un democratico doc come Parisi.
Perché l’obiettivo era troppo importante
per fallire. E poteva essere raggiunto
solo così. Soft all’inizio. Durissimo
alla fine. La più grande base militare
fissa d’Europa del terzo millennio
poteva nascere. Il proprietario: gli
Stati Uniti d’America. Il suolo? Almeno
formalmente: italiano. Stato versus
Stato. E Vicenza (giuridicamente,
culturalmente, socialmente parlando)? Un
ex punto geografico. Ma partiamo
dall’inizio. Nel segno di Ponzio Pilato
PINO DATO VIA S. ANTONINO
È UNA STRADA molto cara ai vicentini.
L’hanno percorsa da sempre per arrivare,
più in bici che in auto, al magico
Livelon Beach, la spiaggia fluviale
popolare più famosa in città: un punto
in cui il Bacchiglione tracciava un’ansa
larga, prima tenue e poi secca,
costeggiata da canne di bambù, che
finiva in una mini-cascata dove i più
audaci si gettavano ebbri di felicità.
Ci andava anche Goffredo Parise a
Livelon Beach ma ora quell’aura magica è
cessata. Ci va ancora qualcuno a
prendere il sole ma non è più la
spiaggia di Vicenza. Via S. Antonino è
piuttosto stretta, di suo. A parte il
Livelon, la strada collega Vicenza a
Caldogno e all’Alto Vicentino. È una
classica arteria della provincia berica,
immaginata per collegare l’immediato
circondario al centro città, utile
comunque per andare verso nord (Thiene o
Asiago) come alternativa alla statale
intasata da mezzi pesanti. Questa città
di centomila anime, praticamente
arroccata attorno a un centro storico
gioiello, concepito in un tempo in cui
l’architetto massimo si chiamava
Palladio, quando iniziò la questione
-Dal Molin che cercheremo di dipanare e
raccontare, si trovava inserita in un
reticolo di strade provinciali e
vicinali vecchie, mediamente, un buon
secolo. L’area tra i fiumi Retrone e
Bacchiglione, i loro canali naturali e
innaturali creati per una campagna
sempre più divorata da casette, garage e
aziendine monoproprietarie, la campagna
a nord di Vicenza – che via S. Antonino
taglia come una lama – è il luogo un bel
giorno deputato da qualche incosciente
senza nome a inserire il più grande
accampamento tecnologico e residenziale
a scopo militare d’Europa. A quel punto
il concerto di strade e campi è
diventato incomprensibile. Evidentemente
non programmato. Non concepito per
esistere, ma solo per servire. Servire
cosa? L’accampamento militare a stelle e
strisce. Con la coda drammatica di una
grande domanda irrisolta: il rapporto
con la città gioiello. Non basta. Il
rapporto con il centro storico da
preservare e proteggere. Il rapporto con
l’etica, con la filosofia del buon
vivere, per gli abitanti di una città
che si scoprivano, di punto in bianco,
mentalmente militarizzati.
Camp Ederle, il preambolo
L’affaire Dal Molin, infatti, ha un
preambolo dal quale non si può
prescindere: Camp Ederle. La Ederle è la
prima base vicentina a stelle e strisce.
E lo è dal 1955. Dal Molin è la seconda.
Nella parte opposta della città. I
vicentini sono circondati. E non sanno
perché. Due accampamenti militari
stringono oggi la città a tenaglia e
sono lì a ipotecarne inevitabilmente
almeno parte del suo futuro. Ma come, se
questo rapporto non è mai stato né
contemplato né studiato? Un bel caos. Ma
andiamo con ordine. Parlare del Dal
Molin, oggi battezzato Del Din, senza
parlare di camp Ederle è un nonsense.
Infatti, per attenuare l’impatto logico
e psicologico che la nuova idea
meravigliosa militare avrebbe
inevitabilmente prodotto sulla
popolazione vicentina, le cosiddette
Autorities (d’ora in avanti, se il
soggetto manca, le chiameremo
anonimamente così) spiegano il Dal Molin
come un’accrescimento “naturale” (le
virgolette sono nostre) della Ederle.
Come sappiamo, è un falso, e non solo
per i circa dieci chilimetri che le
separano attraverso i principali
quartieri residenziali est-nordest della
città. La verità è che se non ci fosse
stata la Ederle il Dal Molin avrebbe
avuto avvio e sviluppo molto più
semplici e lineari, probabilmente
limitati agli aspetti urbanistici, di
viabilità e di organizzazione
dell’esistente aeroporto civile-militare
(altro nodo problematico di cui
parleremo). Non sarebbe stato un gioco
da ragazzi, ma alcuni aspetti sarebbero
stati più tranquillamente sottaciuti.
Ecco il verbo magico: sottacere. Usato
da sempre, e sempre tranquillamente, a
Vicenza. Fin da quel lontano 1955 in cui
nacquero gli Americani a Vicenza. Cioè
Camp Ederle.
Vicenza e il trattato dell’Atlantico del
Nord
I modi della nascita di Camp Ederle
ricordano, in buona parte, i modi della
nascita del Dal Molin. Perché le
contraddizioni su cui poggiano, gli uni
e gli altri, sono le stesse. Prima
contraddizione (mai superata): i
trattati per l’allestimento di basi
militari in Italia sono sottoscritti nel
nome e sotto l’egida della Nato (e, per
via di questa egida, approvati da leggi
in Parlamento), mentre la struttura
militare presente a Camp Ederle ha una
sola bandiera, quella americana. E così
sarà per il Dal Molin. Come si spiega?
Una spiegazione ufficiale non c’è, ma la
contraddizione interferisce pesantemente
con questa storia perché se Ederle e Dal
Molin fossero nati sotto l’egida Nato
(organizzazione nata il 4 aprile 1949
dopo estenuanti discussioni durate un
anno, a Washington, con il nome di
Trattato dell’Atlantico del Nord) la
loro giurisdizione sarebbe disciplinata
da trattati Nato (alleanza alla quale
l’Italia appartiene con diritti e
doveri) E almeno si saprebbe dove
sta l’inghippo. Seconda contraddizione:
giuridicamente Vicenza è nata male anche
ai tempi della Ederle. A priori non
doveva esistere. Non è citata nei
documenti che, anche allora, latitavano
o erano segreti. E allora come ha fatto
a esistere all’improvviso? Per un
trattato specifico? Per un protocollo
d’intenti? Per una conferenza stampa?
Niente di tutto questo. Come base
logistica. Ma la questione merita un
approfondimento.
La Setaf e l’accordo bilaterale sulle
infrastrutture
Tutto nasce con la Setaf, che non è
struttura Nato, ma Usa. Sta per South
Eastern Task Force (letteralmente Gruppo
d’Assalto per il sud-est europeo). Nasce
nel 1951, e la sua prima sede è a
Livorno, a camp Darby (W. Darby era un
generale americano, morto in battaglia
sul Lago di Garda nel 1945). Seconda
data magica: il 1955. È la data del
trattato internazionale che determina la
neutralità dell’Austria. Perché è
importante questa data? Per due ragioni:
la prima, tattica, perché sposta più a
ovest, e cioè in Italia, e meglio ancora
nel Veneto, il confine più orientale a
disposizione degli americani e della
Nato per tenere sotto controllo mosse ed
espansionismo dei sovietici (la guerra
fredda è in pieno svolgimento), la
seconda, logistica, perché le truppe
americane allocate in Austria devono da
un giorno all’altro ritirarsi e
scendere, staremmo per dire
inopinatamente, in Italia. Ma c’è un
antefatto importante a questa data.
Anzi, c’è una data ancora più magica: 20
ottobre 1954. Quel giorno si firma un
importantissimo accordo tuttora valido e
anzi determinante per inquadrare la
storia successiva: nasce il BIA,
acronimo che sta per Bilateral
Infrastructure Agreement, accordo
bilaterale sulle infrastrutture. Chi
sono i firmatari di questo BIA? Stati
Uniti e Italia: la Nato non c’entra.
L’accordo è secretato fin dall’inizio e
lo è tuttora. I Diòscuri del patto sono
due personaggi chiave della storia post
bellica di Italia e Stati Uniti, Mario
Scelba e John Foster Dulles [Cfr.
Alfonso Desiderio, Limes n. 4 / 2007,
pp. 305 e segg. Viaggio nelle basi Usa
in Italia – La fatal Vicenza].
Tutto può dirsi Nato, tutto può dirsi
Usa
Quest’ultimo premeva da mesi con il
presidente del Consiglio italiano per
firmare un accordo quadro sulle basi
americane in Italia, ma Scelba, uomo
della destra democristiana, non voleva
portare un atto così delicato in
Parlamento per la ratifica. Preferiva
tenerlo fuori dalle Camere perché temeva
aspre polemiche e relativa bocciatura.
Allora Scelba tergiversò. Finché, con la
firma del memorandun che liberava
Trieste (fino a quel momento territorio
nominalmente neutrale, cioè fuori dalla
giurisdizione italiana) gli americani
giocarono la carta decisiva che obbligò
Scelba a decidere. In perfetto stile
democristiano il presidente del
Consiglio di allora mantenne la
secretazione del documento sulle basi
americane in Italia sorpassando il
Parlamento, ma per evitare di firmare un
documento fuorilegge limitò l’accordo
alle truppe americane schierate per
obiettivi Nato. Da quel che si sa la
formula usata nel documento è scivolosa
e di variabile interpretazione. Se
Scelba in teoria non uscì dai limiti
della legge (come sempre fissati con
sagacia verbale tutta italiana), ne
uscirono ampiamente tutti coloro –
compresi Berlusconi e Prodi – che
applicarono le norme del BIA in termini
“estensivi”. Tutto poteva dirsi Nato,
tutto poteva chiamarsi Usa. L’altra
faccia buffa della questione è che
Vicenza, nel BIA, non c’è proprio. Alla
sua firma, nell’ottobre 1954, Vienna era
ancora presidiata da russi, americani,
francesi e inglesi [si legga sulla
situazione della Vienna occupata, ancora
oggi straordinario e valido, Il Terzo
uomo, di Graham Greene, Mondadori] . Un
documento del genere, che stabiliva in
segreto regole e strutture di basi
militari in un Paese amico, conteneva
ovviamente allegati esplicativi. I più
importanti, fra gli allegati,
riguardavano le basi esistenti e quelle
previste [Cfr. Alfonso Desiderio, Limes
n. 3 / 2007, p. 64, Tabella sugli
accordi fra Italia e Usa per le basi] ,
tutte divise per scopi e funzioni: per
le basi aeree ad esempio c’era un
memorandum per Aviano, Udine, Ciampino,
S. Vito dei Normanni e altre, per i
carburanti c’erano Venezia, La
Maddalena, Pozzuoli, per le
telecomunicazioni e lo spazio aereo
Napoli e Capodichino, per il supporto
generale al nord Italia c’era Verona. E
Vicenza? Gli americani non la
conoscevano: ridente cittadina del nord
Italia, vicina a Verona.
Vicenza, arrivano i Red Knights
Quella che sarebbe diventata, di lì a
poco, la città ospite della più grande
concentrazione di truppe dell’esercito
americano in Italia (e non solo) non
appare neanche nei documenti successivi
che sanciscono nuovi accordi bilaterali
fra Usa e Italia, come collegati
dell’accordo BIA del 1954. Di questi
protocolli si conoscono i
soggetti/oggetti (Sigonella, Comiso, S.
Anna di Crotone, Lampedusa, Grosseto,
Palermo eccetera) ma non se ne conosce
il testo. Tuttavia, neanche in questi
Vicenza c’è. In pratica stiamo
verificando un fatto che è di per sé
assiomatico per l’intera vicenda delle
truppe americane stanziate a Vicenza:
non esiste nessun documento ufficiale,
forse neanche segreto, che stabilisca
che le truppe americane provenienti
dall’Austria e sistemate nella caserma
Ederle di viale della Pace in quel
mitico 1955 sia l’effetto di un accordo,
di un postulato, di un elaborato
d’intenti ufficioso o ufficiale fra lo
stato italiano e quello americano. I
soldati sono arrivati e basta. Scrive
Alfonso Desiderio su Limes 5 : “Il 25
settembre 1955 217 soldati su 47 veicoli
attraversano il Brennero e alle 17 e 30
arrivano a Vicenza, alla caserma Carlo
Ederle, eroe della prima guerra
mondiale. L’accoglienza è buona,
nonostante i 53 bombardamenti americani
che dal 1943 al 1945 avevano fatto oltre
mille morti, circa 1700 feriti e
distrutto 800 edifici della città. Il 6
ottobre arriva il grosso delle truppe:
sono i Red Knights, gli stessi che erano
passati da Vicenza nell’aprile del 1945
per andare appunto in Austria, da dove
ora stanno tornando. Infine il 25
ottobre viene attivata Camp Ederle e la
Forza tattica dell’esercito degli Stati
Uniti nel Sud Europa (Usasetaf). Si
tratta di 10 mila soldati.” Poi,
aggiunge Desiderio in nota, ricordando
come l’invasione fosse stata vista (Gli
Americani a Vicenza) da uno dei massimi
scrittori vicentini, allora residente in
città, Goffredo Parise: “La data di
arrivo non corrisponde a quella di
Parise, che si sbaglia o si confonde con
l’aprile 1945 quando passarono per
Vicenza le truppe americane che
risalivano la penisola”. L’inciso merita
da parte nostra l’apertura di una
piccola parentesi, visto che Parise
appartiene alla storia patria vicentina.
Parise : “Questo racconto fu scritto nel
1956, a Vicenza mentre ero ospite di mia
madre e osservavo le truppe americane
della Setaf che si aggiravano nella
piazza palladiana”
In realtà Desiderio, ottimo analista,
rivela – non è il solo – di non aver
letto l’opera del grande Goffredo,
perché è evidente, dal racconto, che
Parise non si riferisce al passaggio (il
1945) bensì all’invasione e relativa
permanenza (1955 e seguenti). Non solo.
Se avesse letto il racconto, pubblicato
da Scheiwiller nel 1966, avrebbe visto
che in avvertenza lo stesso Goffredo
così scriveva: “Questo racconto fu
scritto nel 1956 a Vicenza, mentre ero
ospite di mia madre e osservavo le
truppe americane della Setaf che si
aggiravano nella piazza palladiana”. Ma
Alfonso Desiderio, sul mese riferito da
Parise nell’incipit del racconto
pubblicato da Scheiwiller ha ragione nel
definirlo uno sbaglio, anche se la
verità l’abbiamo scoperta dopo,
ritrovando il primo documento originale
de Gli Americani a Vicenza (donato alla
Biblioteca Bertoliana). E mi spiego. Nel
racconto pubblicato da Scheiwiller
Goffredo inizia così: “La sera del 13
aprile gli americani arrivarono quasi
senza farsi sentire.” Ora, nel documento
originale ritrovato, che è senza alcun
dubbio un testimone originale, Parise
così inizia: “La notte del 22 ottobre
americani in tenuta da guerra invasero
colline e campagne” (ne pubblichiamo la
copia fotostatica nella pagina
successiva) [per il dettaglio delle
varianti tra il manoscritto ritrovato de
Gli Americani a Vicenza, la versione di
Scheiwiller del 1966 e la precedente
versione apparsa nell'”Illustrazione
Italiana” del 1958, cfr. Pino Dato,
Vicentinità, 2007, Dedalus, Vicenza, pp.
103-136] . Dunque, mi dispiace
contraddire Desiderio (che non poteva
saperlo all’epoca della sua ricerca su
Limes) ma Parise ha messo la data giusta
nel suo racconto, perfettamente
coincidente con quella (25 ottobre) in
cui i soldati americani hanno costituito
il presidio della Ederle in massa.
Perché poi, editorialmente, l’autore
abbia deciso di cambiare data, oltre ad
un paio di frasi dell’incipit, è fatto
che pertiene alla letteratura, non alla
storia. Non erano certo i 217 soldati
dell’avanguardia motoristica ad avere
attratto l’attenzione e incendiato la
fantasia di Goffredo, ma i soldati, come
scrive nell’introduzione, “che si
aggiravano per la piazza palladiana”.
Dunque, a Ederle già presa e costituita.
Anni Sessanta d’oro per gli americani a
Vicenza
Come confermano tutte le fonti
conosciute, Vicenza non era affatto
prevista come base militare americana. E
neanche come base Nato. Vicenza è stato
uno splendido prodotto del caso, voluto
da Giove o da non si sa assolutamente
chi. Ma ora, attenzione alle date. Nel
1954 c’è la firma del famoso trattato
BIA, la madre di tutte le azioni e di
tutte le decisioni, informali e
inconfessabili, in sintesi segrete. È un
trattato non solo segreto (questo, si
sa, è ovvio e perfino normale fra due
Stati) bensì a priori volutamente
ambiguo. Estensibile. Fatto per
bypassare il Parlamento, fare una carta
d’ intenti, permessi e regole che si
richiama alla Nato (e questo permette di
saltare il Parlamento) ma che si esprime
con un linguaggio elastico, che offre
soluzioni cosiddette “estensive”. Tipo:
questo non è Nato, ma alla Nato fa
logicamente riferimento. L’illegalità
mascherata sapientemente di legalità.
Insomma, una truffa in lingua inglese e
in (probabilmente pessima) traduzione
italiana. Firmatari: Stati Uniti e
Italia. A questo trattato si ispira la
Setaf nelle sue mosse. Prima sta a
Livorno, poi, dopo la costituzione di
Camp Ederle (nato dal nulla), nel 1957
trasferisce la sede a Verona. A Vicenza
per ora arrivano solo molti soldati. Una
marea. Scrive giustamente Desiderio: “Le
basi americane di allora non sono
autosufficienti come oggi e i soldati
Usa, per forza di cose, devono
relazionarsi con il resto della
popolazione. Ci sono direttive precise
al riguardo e una particolare
sensibilità. L’ambasciatrice Clara
Boothe Luce [Clara Boothe Luce fu
ambasciatrice americana in Italia dal
1953 al 1956. Personaggio molto vivace e
influente all’epoca. Sostenitrice di un
femminismo ante litteram, fu ottima
scrittrice, ma sarà ricordata
soprattutto per due aspetti: il suo
feroce anticomunismo e il suo matrimonio
con il ricco Harry Luce, fondatore e
proprietario di due pilastri (ancor
oggi) del giornalismo americano: Time e
Life. La Luce fu molte cose insieme,
nella sua movimentata vita. Fu il primo
ambasciatore donna della storia e si
fece assumere come direttrice a Vanity
Fair dal magnate di Condé Nast. Si
convertì anche al cattolicesimo ma
questo, secondo un paio di feroci
biografie postume, non le impedì di
avere una vita sessuale piuttosto audace
e, a leggere il grande scrittore
americano Gore Vidal, sia omo che
eterosessuale. Fu chiamata la Giovanna
d’Arco dell’anticomunismo ma Vidal,
spietato con la Luce per molte ragioni,
non negò che il personaggio possedesse
anche contraddizioni positive come
quella di essere stato uno dei primi
personaggi americani a denunciare
l’antisemitismo nazista. Clara Boothe
Luce avviò negli anni ’50 (prima di
diventare ambasciatore in Italia) una
delle più ricche e generose campagne di
finanziamento della Democrazia
cristiana.] raccomanda più volte alle
truppe americane di non apparire come
occupanti perché la missione della Setaf
non è solo quella di essere pronta al
combattimento ma anche di costruire un
rapporto di amicizia tra gli americani e
i loro alleati italiani.” Ricevuto e
tutto vero. Gli anni Sessanta sono gli
anni d’oro degli americani a Vicenza. I
matrimoni misti sono sempre più
frequenti (“una media di nove matrimoni
al mese”) e il rapporto con la città
assume una dimensione umanamente, e
perfino culturalmente, accettabile. Ma
continuiamo con le date che contano.
Anche perché d’ora in avanti Vicenza non
è una base militare americana come
un’altra. Il suo Dna, se così possiamo
dire, è tutto impregnato dalle norme del
trattato secretato del 1954, dunque è
sito ideale per fare e disfare. Per fare
senza che si sappia in giro. Vicenza
appartiene al Segreto Militare per
antanomasia. E infatti sarà sempre così:
fino ad oggi, fino al Dal Molin.
Arrivano i missili Corporal e Honest
John
A parte il Dna, al di là dei suoi
notevoli vantaggi logistici, Vicenza ha
una qualità che la fa preferire di gran
lunga a qualunque altra soluzione
militare a stelle e strisce: località
dolce, mite, molto disponibile, ospitale
al punto giusto, senza apparire
invadente. Con tanti, tantissimi
democristiani, e pochi, rari, comunisti.
Nell’Italia degli anni ’50 era una
qualità non da poco agli occhi militari
americani. Ma, ripetiamo, attenzione
alle date. Perché Vicenza militare Usa,
con tutte queste sue qualità, diventa lo
specchio di rifrazione della politica
americana dell’epoca, ispirata e
condizionata dalla Guerra Fredda con i
sovietici. Alla costituzione di Camp
Ederle andava bene creare una forza
d’urto di truppe di fanteria numerose e
ben addestrate. Ma i tempi cambiano e la
guerra fredda si nuclearizza. E dove
creare il deposito ideale di testate
nucleari con le quali dotare i missili
Corporal o Honest John se non a Vicenza?
Il luogo è perfetto. Pendici, prossime
alla città, dei colli Berici, località
Longare, ricca di grotte naturali ideali
per rampe di lancio efficienti e
protette. Nasce il Site Pluto. Secondo
il Dna vicentino, secondo il decalogo
del trattato del 1954: senza che si
sappia in giro. E’ il 1957. Vicenza,
senza saperlo, diventa la più importante
base nucleare d’Italia, e forse
d’Europa. Ma in giro nessuno lo dice.
Vicenza è più sonnolenta che mai. E lo
sarà a lungo. Nessun politico,
democristiano o no, si ribella a questa
situazione. Chi è informato, approva.
Chi non è informato ma sente solo
qualcosa, giudica conveniente fingere di
non sapere. Comunque, la città non è
informata. I giornali non ne parlano.
Eppure il Site Pluto non è invisibile,
tutt’altro. Ha un’estensione di circa
cinque ettari [Daniele Paragano,
Università di Trieste, Dottorato di
Ricerca in Geopolitica, Geoeconomia,
Geostrategia, Le basi militari degli
Stati Uniti in Europa. Posizionamento
strategico, percorso localizzativo ed
impatto territoriale. (2007/2008)] e fu
già utilizzato nella seconda guerra
mondiale dall’Alfa Romeo per la sua
produzione bellica. Salvato dagli aerei
americani (che non lo videro e non lo
colpirono) sarà da loro utilizzato con
profitto molti anni dopo: paradossi
della storia.
Mariano Rumor: “Gli americani non se ne
devono andare”
Ma se la politica americana cambia, la
realtà militarizzata Usa del Vicentino
gli va dietro. Si parla chiaramente di
una riduzione drastica delle truppe sul
fronte est europeo. La storia narra che
l’unico ad opporsi sia stato l’onorevole
Mariano Rumor, nei primi anni Sessanta
[Mariano Rumor (Vicenza, 16 giugno 1915
– Vicenza, 22 gennaio 1990), fu a quell’epoca,
Ministro dell’Agricoltura dal 1959 al
1963, e divenne segretario politico
della Democrazia cristiana nel 1964] ,
quando la politica americana, orientata
alla nuclearizzazione come strumento di
difesa/offesa, trovò conveniente avviare
una progressiva riduzione del
contingente militare presente a Camp
Ederle. Si vociferò anche di un
possibile sostanziale smantellamento
della base, con il solo mantenimento del
Site Pluto. Rumor si oppose
energicamente perché era convinto che
Vicenza avesse bisogno della presenza
americana. In realtà si sbagliava:
perché dopo i primi anni di assuefazione
e integrazione gli americani avevano
costituito a Camp Ederle un mondo a sé
stante. I rifornimenti erano al cento
per cento a stelle e strisce. I consumi
dei boys e delle loro famiglie, a
Vicenza e dintorni, si spensero
progressivamente fino a ridursi al
lumicino. Ma Rumor era stato deciso (per
una volta). E la sua iniziativa ebbe
successo. Nel 1965 il comando Setaf fu
trasferito da Verona a Vicenza: almeno
un po’ di coerenza. Ma le truppe furono
ridotte a 2500 unità. Si disse che senza
l’intervento di Rumor gli americani se
ne sarebbero andati dalla Ederle. Non ci
sono documenti ufficiali al riguardo.
Qualcuno, nell’ambiente democristiano
più filo-americano rimpianse per un po’
la Clara Boothe Luce, grande
sostenitrice della base. Per la storia,
c’era un tipo più mite all’ambasciata
Usa di Roma, un certo Frederich
Reinhardt, meno anti-comunista della
Luce e più abituato a ragionare con i
dati alla mano (sarà in seguito
ambasciatore a Saigon, nel pieno della
guerra vietnamita). È significativo il
fatto che Rumor, anche nelle sue memorie
[Mariano Rumor , Memorie (1943-1970),
Editrice Veneta, Vicenza, 2007] , si
dilunghi sul caso Montesi (una donna
trovata assassinata sul litorale romano,
rapporti con il senatore Piccioni,
eccetera) e non faccia il minimo cenno
agli americani a Vicenza. Come se il
fatto non fosse storicamente rilevante.
Oppure: come se la realtà fosse nata
solo per essere sottaciuta. Nel più
coerente Dna della vicentinità.
Guerra del Golfo, V Ataf, Bosnia e
Kosovo: Vicenza c’è
Inizia un periodo di ipotetica
neutralità tematica. La città è
sonnolenta e indifferente. L’economia
vicentina cresce per conto suo, non ha
certo bisogno del propellente americano.
I tempi cambiano rapidamente. La Setaf è
meno attiva. Per i militari americani
Setaf diventa acronimo di un’altra cosa:
“Soldiers Even The Americans Forgot”
(soldati che anche gli americani hanno
dimenticato) scrive significativamente
Alfonso Desiderio [Cfr. Alfonso
Desiderio, Limes n. 4 / 2007, op. cit] .
Un piacevole luogo di riposo più che di
guerra. La Guerra del Golfo del 1990
sposta le localizzazioni strategiche.
Vicenza non è più il baluardo contro
l’Unione Sovietica, che nel 1991 si
auto-estingue, ma è l’ideale base per un
teatro di guerra del tutto nuovo, il
Medio Oriente e l’Africa. La Setaf
riacquista vigore. L’aeroporto Dal Molin,
che di lì a qualche anno verrà
smantellato per far posto alla nuova
base Del Din, possiede un’efficiente
pista di volo di proprietà
dell’Aeronautica Militare Italiana (ne
riparleremo), e ospiterà, oltre agli
avieri italiani, la sede della V Ataf (Allied
Tactical Air Force). Oltre il Golfo,
ecco la guerra di Bosnia e il Kosovo.
Durante la guerra nella ex Jugoslavia
dalla pista dell’aeroporto di via
Ferrarin partono gli stormi d’attacco
della Nato contro la Serbia. Un comando
americano nell’aeroporto vicentino
resterà anche a guerra finita. Camp
Ederle si rivitalizza: gli spostamenti
territoriali e strategici determinati
dai nuovi teatri bellici riportano la
città di Vicenza e il suo campo modello
della Ederle in primo piano.
Arriva la brigata immortalata da Francis
F. Coppola in Apocalypse Now
Vicenza torna ad essere una base ambita
dall’ambiente militare americano, truppa
compresa. L’idea del Dal Molin, con ogni
probabilità (anche se, more solito,
documenti non ne esistono) nasce da
questa duplice situazione da pollice
alto: buon impatto della V Ataf sul
territorio vicentino per i voli contro
la ex Jugoslavia, rivitalizzazione del
camp Ederle. Ma precedentemente, negli
anni definiti dei Soldiers Even The
Americans Forgot, in realtà qualcosa di
rilevante era accaduto. Due cose. La
prima: l’arrivo in città nel 1980 di una
parte della 173 a Brigata
aerotrasportata, quella resa famosa
dalla guerra in Vietnam e che fu
raccontata da Francis Ford Coppola in
Apocalypse Now, letteralmente
ricostituita dopo la perdita di circa
duemila soldati negli acquitrini
vietnamiti, ma che, per motivi
logistici, doveva dividersi fra Germania
e Italia. La seconda: la costruzione,
nei primi anni ’80, di un grande
villaggio americano residenziale, non
lontano da camp Ederle, verso il casello
autostradale di Vicenza Est. Queste due
novità, la Brigata 173 e il Villaggio,
accrescono presso il Pentagono e
l’esercito americano, il prestigio di
Vicenza, che diventa sempre più la base
preferenziale Usa in Europa.
L’allargamento con il Dal Molin, di
fatto, inizia qui, e cioè molto prima
che si cominciasse a parlarne nei primi
anni del terzo millennio. La comoda e
gradita allocazione, la tranquillità del
posto, la posizione strategica rispetto
ad altre basi, danno la definitiva
benedizione a strutture già di fatto
allargate, autosufficienti e complete
per uomini, mezzi e logistica. Il Dal
Molin diventa, in quella che sta
diventando una silente, ma quasi
naturale strategia, un completamento
obbligato.
La tragedia del Cermis D’Alema conferma
Scelba
Ormai è nota agli americani (politici e
militari) la benevolenza dell’ambiente
sociale e politico vicentino. Ha
permesso, senza colpo ferire, non solo
l’installazione e la permanenza per
mezzo secolo di una struttura importante
come la Ederle, ma non ha posto
sostanziali obiezioni alle altre
installazioni: – a Longare, paese
vicinissimo alla città, sotto il
versante nord-est dei colli Berici, sede
del il Site Pluto, che ha ospitato
(almeno fino al 1992) l’arsenale
nucleare più importante nell’Europa
della guerra fredda (210mila mq.); – al
Tormeno, comune di Arcugnano, località
Fontega, che ospita depositi di armi e
munizioni in un’area di 137 mila mq. – a
Torri di Quartesolo / Lerino, due aree
di complessivi 80 mila mq. per il
deposito di veicoli e altri mezzi – a
Vicenza, villaggio americano
residenziale, vicino camp Ederle, area
di mq. 332 mila. E poi c’è un terzo
fatto, squisitamente legato alla madre
di tutti i trattati del 1954: il 2
febbraio 1995 è firmato un Memorandum
d’intesa tra il Ministero della Difesa
italiano e il Dipartimento della Difesa
Usa relativo alle infrastrutture e
installazioni concesse in uso
all’esercito americano sul territorio
italiano. Dopo quarant’anni una
rinfrescata ai princìpi è dovuta. Il
Memorandum riafferma i postulati
contenuti nel trattato BIA del 1954 e ne
conferma la secretazione. Ma la novità
storica è che per la prima volta il
Memorandum di un atto secretato (dunque,
teoricamente a sua volta secretabile) è
reso pubblico. Lo fa, con evidente
compiacimento, il governo D’Alema: si
sente obbligato moralmente a farlo dal
processo sulla tragedia del Cermis. Ma a
suo modo, anziché servire a chiarire,
legittima la famosa contraddizione del
trattato madre del ’54: il concetto
esposto è ancora più scivoloso di quello
originale perché riafferma il carattere
bilaterale degli accordi fra Usa e
Italia ma nei limiti del Trattato della
Nato. Ipocrisia massima. È come dire:
tutto quello che decideremo (o che
abbiamo già deciso) lo decidiamo in due
(Usa e Italia) ma garantiamo che lo
faremo, con questo Memorandum,
rispettando al cento per cento il
trattato dell’Alleanza Atlantica. Quel
“nei limiti del trattato” è la più
maleodorante aria fritta delle ricette
politico-diplomatiche dei tempi moderni.
E chi ce lo può garantire se il
documento madre è comunque secretato? I
due firmatari, Usa e Italia. Dobbiamo
dire che, sul piano morale (storico),
l’uomo di destra Mario Scelba e quello
di sinistra Massimo D’Alema hanno fatto,
a distanza, un eccellente compromesso
storico a due voci. Da questo folle
compromesso nasce il Dal Molin. Alla
prossima puntata.
|
Monte Mancuso, i misteri
della base Nato dismessa Resta zona militare,
registrati movimenti di camion
Da Il
Quotidiano della Calabria.it - 04 dicembre 2013
Era un presidio strategico per le
radiocomunicazioni. In calabria ne esistono
altri due: Crotone e Sellia Marina. Ma questo,
su un'altura nei pressi di Falerna, alimenta
sospetti. Il Comune non ha mai reclamato l'area.
E la gente del posto racconta di mezzi pesanti
provenienti dalla costa. COSENZA - Saremmo
potuti tranquillamente entrare scavalcando una
piccola rete metallica. Alla prima impressione e
sguardo all’interno, in quella base militare non
vi era nessuno. Ma il cartello parlava
apertamente di zona militare e limite
invalicabile. Se avessimo incontrato qualcuno al
suo interno avrebbe potuto spararci e nessuno ci
avrebbe pagato. Avevamo torto marcio. Ma la
curiosità era enorme più della paura. Il
silenzio che avvolge la base, così come una
leggera nebbia, è davvero inquietante. Così la
fitta vegetazione fatta da ontani che in un
certo qual modo protegge la basa da occhi
indiscreti.
All’interno della base i capannoni risultano
deserti, non si vede nessuno e non vi sono segni
di vita quotidiana. Il cancello sembra chiuso da
anni e quasi del tutto arrugginito così come lo
sono alcuni bidoni, contenenti chissà cosa,
sparsi un po’ ovunque. Parliamo della Base Nato
di Monte Mancuso, in provincia di Catanzaro,
ricadente nel comune di Falerna. Su questo monte
negli anni Sessanta gli americani costruirono
una base che serviva per le telecomunicazioni
denominate Immz e faceva parte dell’Ace-high
Network, un sistema strategico per le
radiocomunicazioni nell’ambito Nato che
collegava tra di loro e con i centri decisionali
e di comando, tutti i radar remoti posti sui
confini est dell’Alleanza Atlantica. La base di
Monte Mancuso rientra nelle 113 basi militari,
attive e non, in tutta Italia. In Calabria ne
risultano tre di questi siti: uno è a Crotone e
trattasi di una stazione di telecomunicazioni e
radar Usa e Nato, forse ancora attiva, l’altra è
a Sellia Marina attiva dal 1959 fino al 1994
quando venne dismessa ed abbandonata e l’ultima
a Monte Mancuso.
Chi siano gli effettivi proprietari di questi
terreni non è dato sapere. Teoricamente
dovrebbero essere dei Comuni nei quali ricadono.
Quindi, se sono state dismesse e disattivate
perché i Comuni non si attivano per riprenderne
il possesso? Sono aree importanti. La base di
Sellia Marina potrebbe oggi essere considerata
una discarica vera e propria. Sembra che al suo
interno sia attiva solo un’antenna ora di
competenza della Capitaneria di Porto, ma il
resto risulta completamente abbandonato. Così
come lo è la base di Monte Mancuso. O almeno
così dicono in paese ed in giro. Ma mentre sulle
altre due basi non si raccolgono commenti,
riguardo a questa di Monte Mancuso circolano
voci allarmanti. Parlando con alcune persone di
Falerna, queste asseriscono che da sempre, e
cioè da quando è stata attivata, ma anche oltre
la sua dismissione, attorno a quel monte vi sono
stati movimenti di camion sospetti provenienti
dalla costa. Se quella base è chiusa, perché il
limite resta ancora invalicabile ed indicato
come Zona Militare?
Il sistema di telecomunicazioni di cui la base
era dotata, Immz, era un centro nodale da dove
partiva il collegamento sia con la Grecia che
con la Turchia, nazioni ancora sotto attenzione
Nato, sia per le tensioni esistenti in quei
paesi, sia per la loro posizione strategica
rispetto alla Siria ed a Israele. Il sistema
venne dismesso ed oggi con il Muos avviato il
Sicilia, a Niscemi, sicuramente questa base è
diventata obsoleta dal punto di vista
tecnologico. Monte Mancuso è facilmente
raggiungibile e rappresenta per la sua
vegetazione un punto importante nel sistema
faunistico della Calabria. Il massiccio è
costituito da tre vette. Una a sud, il Monte
Mancuso vero e proprio alto 1290 metri, uno
centrale chiamato Monte Castelluzzo di 1299
metri ed un altro a nord chiamato anch’esso
Monte Mancuso ma con una quota maggiore di 1327
metri sul livello del mare. E’ su questa cima la
base del mistero e che abbiamo raggiunto
tranquillamente in auto, senza essere fermato da
nessun militare.
Gli ultimi militarti visti attorno a questa base
risalgono agli anni 90 durante la guerra in
Iraq. Non erano più di tre, ci è stato detto. E
gli avvistamenti di camion risalgono proprio a
quegli anni. Si parlava di fusti tossici
provenienti dalla stessa zona dove spiaggiò la
Jolly Rosso ad Amantea, il 14 dicembre del 1990,
si parlava addirittura di bombe atomiche
nascoste in un rifugio sotterraneo esistente
all’interno della base. Chiaramente niente è
suffragato da prove, e tutte potrebbero essere
solo parole e “chiacchiere di paese”. Basterebbe
entrarci in quella base per sapere la verità e
fugare ogni sospetto da parte delle popolazioni
calabresi. di Francesco Cirillo
Il Forte di Pietole torna protagonista
Dalla Gazzeta di Mantova
- 26 novembre 2013 — pagina 32 sezione: Nazionale
Domani alle 20.45 nella
sala consiliare di Virgilio si parlerà del Forte di Pietole. Sorto
agli inizi dell'Ottocento come punto di forza del sistema di
fortificazioni francesi del Mantovano, verrà ora valorizzato grazie
all’acquisizione dal Demanio che il Comune di Virgilio sta
formalizzando in questi giorni. «Il nostro intento - afferma il
sindaco Alessandro Beduschi - è di intraprendere al più presto
quanto previsto nel Piano di valorizzazione del Forte approvato dal
Ministero per i Beni Culturali. In particolare poter finalmente
operare in qualità di proprietari, per accedere ai finanziamenti
previsti da fondazioni e privati per gli interventi di recupero,
rifunzionalizzazione e restauro, che renderanno l'opera fruibile ai
cittadini e ai turisti, dal punto divista storico, artistico e
archeologico». La serata, presentata dalla delegata alla Cultura del
Comune di Virgilio, Grazia Caleffi, vedrà la premessa del sindaco
Alessandro Beduschi, e del sindaco di Borgoforte, Giancarlo Froni.
Si parlerà dell'identità culturale dei due territori, prossimi al
referendum per la fusione tra di essi, attraverso l'esperienza
storica delle due fortificazioni che li caratterizzano. Interverrà
poi l'assessore all'Urbanistica del Comune di Virgilio, Fabio Bonelli, per un cenno all'iter burocratico dell'acquisizione del
Forte di Pietole. La serata proseguirà con gli interventi
dell’ingegner Francesco Rondelli, che si è occupato del Programma di
Valorizzazione del Forte, e dell’architetto Claudia Bonora, del
Politecnico, che parlerà del Sistema delle fortificazioni mantovane.
Ospite e relatore sarà poi il Presidente della Società per il
palazzo Ducale, Giampiero Baldassari, che introdurrà il sito
“Mantova Fortezza”.
Serata pubblica sul Forte di Pietole: tra
storia e presente
Dalla Gazzeta di Mantova
- 24 novembre 2013 —
pagina 36 sezione: Nazionale
Una serata dedicata al
Forte di Pietole mercoledì alle 20.45 nella sala consiliare di
Virgilio. Si parlerà del Forte, sorto agli inizi dell'Ottocento per
opera dei francesi e del più recente piano di valorizzazione di
quest'opera architettonica, per la quale il Comune di Virgilio sta
formalizzando in questi giorni l'acquisizione dal Demanio. La
serata, presentata dalla delegata alla Cultura del Comune di
Virgilio, Grazia Caleffi, vedrà la premessa dei sindaci di Virgilio,
Alessandro Beduschi, e di Borgoforte, Giancarlo Froni. L’assessore
all'Urbanistica Fabio Bonelli spiegherà l'iter burocratico
dell'acquisizione del Forte di Pietole. La serata proseguirà con
Francesco Rondelli, l'ingegnere che si è occupato del Programma di
Valorizzazione del Forte, seguito da Claudia Bonora, docente del
Politecnico di Milano-Mantova, che parlerà del Sistema di
fortificazioni mantovane. Giampiero Baldassarri, presidente della
Società per palazzo Ducale, introdurrà il sito Mantova Fortezza.
LA LIBERAZIONE DI PISA DAL
GIOGO DEI FIORENTINI
Da Il Tirreno - 10
novembre 2013 — pagina 22 sezione: Pisa
di FRANCO FERRARO L’Associazione degli Amici di Pisa
ricorda tutti i pisani e le pisane della città e della provincia che
insorsero e lottarono contro Firenze e vari Stati italiani ed
europei per liberare la Repubblica Pisana: quella resistenza fu
talmente eroica che i pisani vennero definiti "la gloria e l’onor
degl'Italiani" e il conseguente periodo di libertà, durato quindici
anni, è passato alla storia come la “Seconda Repubblica Pisana”! Il
9 novembre 1494, data dell’insurrezione, paragonabile al nostro
attuale 25 aprile per il senso di liberazione che pervase gli animi
dei nostri antenati, è festeggiato dalla Compagnia di Calci dal 2004
e auspichiamo che diventi un appuntamento fisso per chi ama Pisa e
la sua storia. Nel 1494 Carlo VIII Re di Francia giunse in Italia
per conquistare il Meridione, su cui vantava diritti di successione:
il viaggio di ritorno poteva essere insidioso e denso di pericoli,
quindi il re francese pensò di farsi degli alleati durante il
viaggio d’andata. La sera dell'8 novembre il Re venne ricevuto a
Pisa nel palazzo Giuli Rosselmini Gualandi, sul Lungarno Gambacorti
(recentemente restaurato e chiamato commercialmente “Palazzo Blu”),
allora di proprietà di Giovanni Bernardino Dell’Agnello. La
tradizione orale ci narra che dopo il ricevimento prese la parola
una bellissima ragazza vicarese, Loisa Del Lante, la quale convinse,
con un accorato appello, il Re a restituire la libertà alla
Repubblica Pisana. Leggenda o verità, Pisa venne liberata e la gioia
dei pisani fu incontenibile. I fiorentini, che occupavano la città
alfea dal 1406 vennero cacciati violentemente e tutto il contado
pisano si ribellò: Buti, Vecchiano, Ripafratta e tutta la
Valdiserchio, Vicopisano, Cascina, Calcinaia, Bientina e Calci, i
castelli di Lari, Cevoli, Guardistallo, Palaia, Ponsacco, Peccioli,
Riparbella, Lorenzana, Santa Luce, Usigliano, Morrona, Terricciola,
Chianni, Soiana e molti altri castelli pisani che oggi formano le
province di Pisa e di Livorno. Seguirono 15 anni di guerre,
massacri, deportazioni: a Pisa affluirono nel 1499 molti abitanti
della provincia, che insieme ai cittadini resistettero eroicamente
alla fame, alle cannonate e alla conseguente carestia. Ma alla fine
non restò che la resa, firmata nel maggio del 1509. I pisani
prigionieri vennero rilasciati e i fiorentini rientrarono a Pisa l’8
giugno, ponendo fine alla Seconda Repubblica Pisana ma concedendo
l'onore delle armi agli eroici cittadini alfei. In conclusione,
questa guerra impartì una dura lezione a Firenze, sia dal punto di
vista militare sia soprattutto a livello di diplomazia italiana ed
europea. Enormi furono gli sforzi economici, ma soprattutto la
perdita di vite umane che Firenze fu costretta a subire per la
rioccupazione di Pisa e del suo territorio, e numerosissime le
umiliazioni per le sconfitte inflitte loro dagli indomiti pisani.
Nel corso di questa guerra i fiorentini distrussero la maggior parte
delle fortificazioni militari e gran parte dell’arredo urbano di
Pisa e di molti paesi del territorio, come Calci, Buti, Ponsacco e
altri. Tanti pisani lasciarono la città, preferendo "ire sparsi per
lo mondo prima di soggiacere a Firenze", ma anche la Repubblica
Fiorentina, indebolita da questa guerra, trovò la sua fine nel 1530
grazie all’avvento al potere dei Medici, che dettero vita al
Granducato di Toscana. Presidente dell’Associazione Amici di Pisa
A che punto è lo scudo
antimissile della Nato
Da agoravox.it del 7
novembre 2013
Lunedì
28 ottobre sono iniziati nella base militare di Deveselu, in Romania, i
lavori di costruzione
che la renderanno parte dello scudo antimissile della Nato. Prosegue
così la cooperazione in campo militare con la Romania, che è diventata
il primo partner militare degli Usa nel Vecchio Continente. Già
utilizzata come base per le operazioni militari in Afghanistan e Iraq,
la Romania ha firmato un accordo con Washington nel 2011 per la
modernizzazione delle proprie forze armate. Nel Paese balcanico sarà
schierato il sistema missilistico antiaereo multifunzionale americano
Aegis, dotato dei missili intercettori Standard-3 (SM-3). Il costo
stimato è di 134 milioni di dollari.
Il
posizionamento degli intercettori balistici, privi di capacita
offensiva, è la prima tappa di un complesso sistema di difesa
missilistico che, dopo l’installazione di una postazione radar in
Turchia, prevede anche il posizionamento di un’altra batteria SM-3 in
Polonia - che lo scorso anno aveva già iniziato a progettare un proprio
sistema di difesa, nell'inerzia dell'amministrazione Obama.
Probabilmente quando il versante polacco del sistema missilistico sarà
operativo, secondo molti esperti, la reazione della Russia potrà farsi
più accesa. La posizione dei russi è infatti nota. Secondo loro
l’installazione dei sistemi antimissile in Europa rappresenta una
minaccia, dato che gli americani rifiutano di dare garanzie
giuridicamente vincolanti circa il fatto che lo scudo antimissile non
sia volto verso Mosca. La prima riunione Nato-Russia a livello
ministeriale dal 2011, conclusa lo scorso 23 ottobre, si è conclusa con
un nulla di fatto, di fronte all'impossibilità di pervenire ad una
soluzione condivisa. Anche il capo amministrazione del Cremlino, Serghej
Ivanov, ha riconosciuto che su questo specifico tema gli Stati Uniti e
Russia hanno interessi troppo divergenti perché una collaborazione possa
aver luogo.
Per
contrastare l’avvio dello scudo, la Russia ha già installato
nell’enclave di Kaliningrad una batteria di missili Iskander puntati su
Varsavia, ed ha intensificato voli militari nello spazio aereo di
Estonia, Lettonia e Finlandia. Entro la fine di quest'anno sarà
schierata anche una nuova batteria dei sistemi missilistici antiaerei
"S-400" nella regione di Mosca. Tra le altre cose, Mosca è già sotto
pressione sul fronte orientale, dove il Giappone - anche qui in
collaborazione con gli Stati Uniti - sta attualmente lavorando ad nuovo
sistema di difesa missilistico. Con Tokyo i rapporti sono tesi da inizio
ottobre, quando in base ad un altro accordo raggiunto con Washington, a
partire dal prossimo anno droni americani avranno base nel Sol Levante.
La Corea del Sud, invece, non ha intenzione di partecipare al progetto,
scegliendo piuttosto di sviluppare un autonomo sistema di difesa
missilistica contro le possibili minacce provenienti dalla Corea del
Nord.
Certo non
siamo più negli anni della Guerra Fredda: oggi sappiamo che nel 1983 una
guerra nucleare fu sfiorata per davvero. Ma certe divergenze persistono
ancora oggi. Il magazine russo Russia Direct (tradotto da Russia Oggi )
ha chiesto ad importanti esperti russi e americani di valutare sino a
che punto i timori di Mosca sono giustificati. La risposta pressoché
unanime è no. Le riserve della Russia riguardo allo scudo si basano su
speculazioni: i russi sostengono che l’installazione di nuove e più
potenti basi di difesa missilistica potrebbe alterare gli equilibri
geopolitici tra America e Russia, e in fin dei conti si tratta di una
considerazione sensata, vista l'attenzione quasi ossessiva di Mosca
verso quello che considera il proprio spazio vitale.
Oggi come
oggi però le obiezioni dei russi non sono trovano giustificazione nei
fatti. Secondo Vladimir Evseyev, direttore del Centro studi sociali e
politici di Mosca:
Io credo che
Russia e Stati Uniti non abbiano alcuna volontà politica di raggiungere
un compromesso in questo ambito, e che la colpa della mancanza di
flessibilità vada attribuita in parte alla Russia. La Russia non si
sforza di affrontare il problema da nuove angolazioni, ma continua
invece a preoccuparsi dei vecchi problemi. Mosca vuole delle garanzie
legali, ma nell’attuale situazione geopolitica è impossibile che possa
ottenerle, e l’Occidente considera inaccettabile tale pretesa. Vogliamo
che gli Stati Uniti facciano ciò che non possono fare, e questo irrita
l’Occidente.
Da rimarcare
anche l'opinione di Gordon M. Hahn, del Centro studi strategici e
internazionali (Csis) di Washington:
La principale
minaccia che deriva dalla difesa missilistica Usa sta nella possibilità
di stabilire un precedente. La Russia non può permettersi di lasciare
che gli Stati Uniti dispieghino delle difese missilistiche a un passo
dai propri confini, perché con il tempo tali difese verrebbero
incrementate, sino a costituire un’effettiva minaccia.
Viene da
chiedersi però a cosa serva davvero uno scudo antimissile oggi, visto
che le minacce per la sicurezza globale sono di ben altro tenore. Non
saranno le batterie antimissile a proteggerci dal fondamentalismo
islamico o dalla pirateria. Eppure le grandi potenze sono ancora divise
su un dossier concepito oltre trent'anni fa, quando la minaccia nucleare
era un rischio concreto, ma che oggi risulta del tutto anacronistico.
Inoltre, e questo forse è l'aspetto più deleterio, le divergenze sulla
difesa missilistica influenzano molti aspetti dei già complicati
rapporti tra Usa e Russia, favorendo un senso di diffidenza reciproco.
Alla faccia del reset auspicato da Obama. In concreto, più che un'arma
bellica, lo scudo antimissile è un'arma diplomatica. Come scrivevo nel
luglio 2012:
Ma
lo scudo antimissile serve per proteggerci dall'Iran o dalla Russia?
Probabilmente da nessuno dei due Paesi. Questa eccellente analisi di
Limes , di cui riporto i passaggi più significativi, apre uno scenario
del tutto diverso:
Lo scudo
europeo secondo Obama si divide in quattro fasi. Come ha annunciato la
Nato al vertice di Chicago di maggio, la prima di queste si completerà a
fine 2012, col dispiegamento di 29 navi dotate della tecnologia radar
Aegis, 113 missili Sm-3 Block IA e 16 IB, oltre a un radar già
funzionante a Kürecik, in Turchia. La seconda fase terminerà entro il
2015, quando in Romania dovrebbe essere operativo il primo radar Aegis
terreste Spy-1, dotato di 24 Sm-3. Il numero delle navi nel Mediterraneo
salirà a 32, quello dei missili Sm-3 Block IA a 139 e quello degli IB a
100.
Nel 2018 in
Polonia si dovrebbe completare la terza fase con l’installazione del
secondo radar Spy-1. Si svilupperanno anche nuovi missili Sm-3, i Block
IIA che dovrebbero essere usati contro testate a gittata intermedia, in
quanto più potenti e più veloci. In questo lasso di tempo, all’arsenale
antimissile dovrebbero essere aggiunti 39 Block IB e dovrebbero essere
potenziati i sensori per rintracciare le testate lanciate. L’ultima fase
ha i contorni meno delineati: da completare entro il 2020, prevede lo
sviluppo di missili Sm-3 Block IIB in grado di colpire missili balistici
a gittata intercontinentale (Icbm, da acronimo inglese).
È proprio
quest’ultimo passo a preoccupare la Russia. Gli attuali Sm-3 non
minacciano l’arsenale strategico del Cremlino: velocità (3 km/s) e
potenza non sono sufficienti a intercettare dal suolo europeo gli Ibcm
russi diretti verso gli Usa, la cui traiettoria passa per l’Artico. Gli
Sm-3 Block IIB invece viaggerebbero a 5/5,5 km/s e potrebbero
neutralizzare le testate ex sovietiche.
Sin qui
nessun problema per gli americani, se questi nuovi missili non
infrangessero il New Start, l’accordo sulla riduzione degli arsenali
nucleari siglato da Usa e Russia nel 2010. Agli articoli 2, 3 e 4, il
trattato vieta espressamente “il dispiegamento da parte degli Stati
Uniti, di un altro Stato o di un gruppo di Stati di un sistema di difesa
missilistica in grado di ridurre significativamente l’efficacia delle
armi nucleari strategiche della Federazione Russa”. La possibilità per
Mosca è in questo caso la denuncia dell’accordo e il ritiro dall’unico
successo dell’amministrazione Obama in campo di riduzione degli
armamenti.
... La
netta chiusura atlantica ha allargato la faglia con Mosca, che propone
di cogestire un unico scudo, mentre da Bruxelles si concede al massimo
l’esistenza di due sistemi separati. L’ultimo capitolo di questa recita
dell’assurdo al limite del beckettiano è la richiesta russa di una
garanzia legale che l’Epaa non sarà usato contro l’arsenale russo. Un
simile accordo è per gli Usa inaccettabile. E Putin lo sa bene. Come
uscire da questo stallo? In teoria a Obama basterebbe annunciare un
tetto alla produzione di intercettatori a lungo raggio al di sotto di
una soglia “dannosa” per le armi russe. Non basta infatti un solo Sm-3
Block IIB per neutralizzare l’arsenale di Icbm del Cremlino. Una simile
misura è però improponibile nell’attuale scenario politico, in cui la
folta presenza di repubblicani al Senato negherebbe al presidente i due
terzi necessari per ratificare l’eventuale trattato.
... i
margini di cooperazione tra le due potenze sono ridotti. Ilreset della
relazioni con Mosca lanciato da Obama nel 2009 pare ormai un lontano
ricordo. I rapporti con Washington si stanno surriscaldando.
... il teatro
europeo rischia di non essere più strategico per le agende russa e
statunitense. È in Asia che si gioca la vera partita geopolitica degli
anni Dieci. Al di là dello scacchiere iraniano, la priorità della
sicurezza nazionale per Washington è il contenimento alla Cina: ecco il
motivo per cui soprattutto nel Pacifico gli Usa stanno costruendo una
“collana di perle” intorno al Dragone. In questo scenario non va
dimenticata l’Asia centrale. Il Pentagono ha da poco strappato ad alcune
repubbliche ex sovietiche accordi per il transito delle truppe in uscita
dall’Afghanistan e per la fornitura di armi, veicoli e tecnologia
bellica usata dalla Nato nell’Hindu Kush. Queste misure non sono
contrarie alla Csto, l’organizzazione militare che unisce questi Stati e
la Russia: il trattato impedisce al massimo di stanziare basi di un
paese straniero senza il consenso degli altri membri. Tuttavia queste
intese potrebbero far parte di un corteggiamento più ampio per inserire
questi Stati nell’architettura del contenimento. Anche missilistico.
L’intero
scudo europeo potrebbe quindi diventare moneta di scambio su un mercato
più ampio, quello asiatico. Dal 2013, quando Obama (o chi per lui) avrà
più ampi margini di manovra, gli Stati Uniti sfrutteranno probabilmente
questa flessibilità per dispiegare ad esempio la flotta di navi anti-
issile altrove rispetto al Mediterraneo. Dunque lo scudo non servirà a
proteggere l'America da Mosca, bensì ad avvicinarla a Pechino. La Guerra
Fredda 2.0 prevede l'ingresso di un terzo incomodo: la Cina. Ossia il
principale creditore degli americani, e ormai loro primo competitor in
tema di economia e di approvvigionamento energetico. Non a caso Obama,
nel corso del suo quadriennio alla Casa Bianca, ha cercato di
indirizzare gran parte della propria attenzione in politica estera
proprio alla normalizzazione dei rapporti con l'ex Impero di Mezzo.
Foto: Birdie Jaworski/Flickr
IL BRAMAFAM A UNO MATTINA
Dal sito
www.assam.it - 05 novembre 2013
Lunedì 11 novembre nel corso
della trasmissione Uno Mattina su Raiuno verrà presentato un servizio
sul Forte Bramafam di Bardonecchia. In studio a Roma ci sarà Pier
Giorgio Corino, Presidente dell’Associazione che da diciott’anni si sta
impegnando nel recupero del forte, in collegamento video da Torino ci
sarà Michele Coppola, Assessore alla Cultura della Regione Piemonte: il
tema trattato la valorizzazione delle fortificazioni in area alpina Evoluzione dell’Accordo con
Rai Educational e la Fondazione Museo storico del Trentino
FORTE
BRAMAFAM SI DIFENDE
Forte Bramafam nel suo piccolo si difende, anzi … Il forte come realtà
architettonica e turistica è sicuramente tra quelle meno conosciute, ma
nel suo museo sono conservate delle collezioni che ben poche altre
realtà possono vantare. Il Museo Forte Bramafam è una struttura
realizzata e gestita solo dal volontariato, che riesce,
autofinanziandosi, a mantenersi nella gestione ordinaria. La sua
ubicazione in alta montagna e la strada d’accesso, non certo delle
migliori, limitano forzosamente il periodo di apertura alla sola
stagione estiva. Eppure in un limitato numero di giorni di apertura il
numero di visitatori continua a lievitare, i contenuti del museo, la
qualità degli allestimenti ed il messaggio di valorizzazione storica che
si sta portando avanti, fanno di Forte Bramafam una realtà unica nel suo
genere. Quest’anno le aspettative, visto il generale momento di crisi,
non erano certo delle migliori, ci si aspettava una flessione del numero
dei visitatori, ma la realtà si è dimostrata decisamente diversa. Le
presenze sono aumentate del 10%, passando dai 6.200 visitatori del 2012
ai 6.800 di quest’anno, con una presenza media giornaliera di 136
visitatori, contro i 90 dell’anno scorso. Se si considera inoltre
l’aumento del prezzo d’ingresso (per adeguarsi all’aumento dei costi) un
risultato decisamente positivo che evidenzia come il forte, la prima
realtà turistica culturale di Bardonecchia,non solo si sia difeso
benissimo ma anche sia “passato all’attacco” con dei buoni risultati.
Resia, porte aperte al
Bunker 20
Da Il Trentino - 03
novembre 2013 — pagina 34 sezione: Nazionale
RESIA
Da fortificazioni di guerra a fortificazioni di pace e di cultura.
Ecco lo spirito con cui, ormai tradizionalmente, si celebra la
giornata delle porte aperte al Bunker 20, la speciale installazione
militare che conserva, al suo interno, le sorgenti del fiume Adige.
E come ogni anno l’iniziativa si è rivelata un successo, con un
centinaio di curiosi che hanno scelto di risalire il secondo fiume
d’Italia per scoprirne l’origine. Lo stesso Bunker 20 è un reperto
di eccezionale valore, visto il suo stato di conservazione e
l’importanza strategica che rivestiva all’epoca. Dopo la dismissione
di questi manufatti dallo Stato alla Provincia, emerse l’idea di
gestirli come risorse delle comunità locali. Subito si diede il via
al progetto di ristrutturare il più importate dei bunker esistenti:
il nr. 20. La vera sorgente del fiume Adige, adesso, è visibile
attraverso un tubo trasparente, ma la sua prima vera “fontana” si
trova appena all’esterno del bunker e le sue acque, dopo una breve
ripida discesa scompaiono nel sottosuolo dei prati della frazione di
Resia e solo dopo alcune centinaia di metri, attraverso un canale
alberato, finiscono nel lago di Resia. Il bunker, visitabile dal
mese di luglio sino al mese di settembre in presenza di una guida. (b.p.)
Museo sulla storia di
Cosmopoli
Da Il Tirreno - 01
novembre 2013 — pagina 19 sezione: Piombino
di
Luca Centini PORTOFERRAIO La storia di Portoferraio non poteva
trovare una collocazione migliore. Nelle stanze del Forte Falcone
appena restaurato torna a vivere la storia di Cosmopoli, la città
immaginata e fondata da Cosimo de’ Medici, realizzata grazie al
contributo di architetti del calibro di Giovanni Camerini e Bernardo
Buontalenti. Dalla prima pietra di fondazione del Forte Falcone ha
inizio il percorso della mostra, inaugurata ieri nelle stanze del
nuovo museo. Un percorso che, attraverso dipinti, bozze e pannelli
esplicativi scandisce la storia della città “ideale” di Cosmopoli,
dalla sua fondazione nel 1548 fino all’influenza degli ultimi
granduchi medicei e a tempi più recenti. L’apertura della mostra
permanente dedicata alla storia della città medicea (il museo di
Forte Falcone sarà aperto tutti venerdì, sabato e domenica dalle
10,30 alle 16,30) è il coronamento di un più ampio percorso portato
avanti dall’amministrazione comunale, iniziato nel 2004. Il Comune
ha infatti portato a compimento i primi due stralci dell’intervento
di restauro del Forte, mentre sono in corso gli interventi per il
terzo stralcio. «Forte Falcone era di proprietà del Demanio – ha
raccontato il sindaco Roberto Peria, durante l’inaugurazione della
mostra – il quadro era estremamente complicato e il bene cadeva a
pezzi. Siamo riusciti a ottenere fondi Dupim dal governo, anche la
Regione ha creduto nella riqualificazione delle fortificazioni di
questa città. Siamo orgogliosi di aver portato avanti un percorso,
pur spendendo poche risorse proprie del Comune, per restituire alla
cittadinanza un Forte Falcone restaurato e una mostra dedicata alla
storia della città. Il 2014 sarà un anno importante in cui
Portoferraio punterà ancora in modo più deciso sul turismo
culturale, mettendo in mostra la città di Cosimo e di Napoleone». Il
materiale culturale esposto nella mostra permanente è stato ricavato
in buona parte dai locali della Pinacoteca Foresiana, altri dipinti
giungono dall’inventario della Galleria degli Uffizi. Ad
impreziosire la mostra una copia di Vincenzo Danti del “Ritratto di
Cosimo I de’ Medici in veste di Augusto imperatore” e il dipinto
riavuto indietro dalla Provincia, con la raffigurazione delle
fortificazioni di Cosmopoli. Le prime pietre di Forte Falcone e
della Linguella e dieci monete medicee sono reperti affascinanti in
un allestimento aperto a future integrazioni che potranno essere
acquisite tramite prestiti o donazioni. La mostra è curata dal
professor Giuseppe Maria Battaglini. A fare gli onori di casa,
durante l’inaugurazione della mostra a Forte Falcone, l’assessore
alla cultura del Comune di Portoferraio, Antonella Giuzio. «Provo
una certa emozione, perché questo è un giorno importante per la
città – spiega l’assessore alla cultura – siamo riusciti a portare a
compimento un progetto che ha restituito alla cittadinanza la
fortificazione di Forte Falcone dopo il restauro, diamo la
possibilità ai residenti e ai turisti di comprendere in modo
migliore la storia di Cosmopoli restituendo una serie di beni, tra i
quali molti dipinti recuperati dal deposito della pinacoteca
foresiana. Ringrazio tutti quelli che hanno collaborato per mettere
in piedi questa mostra, in particolare la giunta, l’architetto Mauro
Parigi, Sillabe e, naturalmente, Giuseppe Maria Battaglini».
Il Comune prende la gestione della
batteria Vettor Pisani
Da La Nuova Venezia - 29
ottobre 2013 — pagina 34 sezione: Nazionale
CAVALLINO «Entro dicembre
prenderemo in gestione pluriennale la batteria Vettor Pisani».
L'annuncio è arrivato dall'amministrazione comunale che si prepara
ad acquisire l'importante fortificazione bellica di Ca' Vio
realizzata nel 1912 e in funzione durante la Grande Guerra. Si
avvicina sempre più l'appuntamento con il centenario della Prima
Guerra Mondiale fra il 2015 e il 2018 in occasione del quale la
Regione riceverà dalla Comunità Europea circa 60 milioni per il
restauro delle fortificazioni militari testimonianza di quel
passato. Il Comune di Cavallino- Treporti non si vuole far trovare
impreparato. Solo quest'estate infatti il comune era riuscito, dopo
20 anni di trattative, a firmare con il Genio civile il verbale di
presa in consegna per un anno della batteria Pisani, pagando un
canone annuo di 2.500 euro. Risale ad agosto scorso la consegna e la
successiva presa in custodia della batteria Pisani da parte del
Comune, in attesa che l’iter di acquisizione definitivo avviato due
decenni fa, possa definitivamente concludersi. «Entro fine anno»,
scandisce Orazio, «firmeremo un accordo per la gestione pluriennale
della batteria Pisani con la possibilità di gestirla, con annessi
gli spazi adiacenti, mettendola in sicurezza e rendendola fruibile
grazie alla collaborazione con associazioni e privati. Un processo
che riguarda anche le altre venti fortificazioni di guerra presenti
sul territorio, un patrimonio spesso sconosciuto e non valorizzato.
Attraverso accordi e convenzioni con privati ed associazioni
intendiamo recuperare e valorizzare tutto il sistema delle
fortificazioni perché si tratta di un importante risultato per il
nostro comune e per il nostro sistema turistico». Francesco Macaluso
Seconda
vita per i forti militari
ALTOPIANO. Nell'anniversario della Grande Guerra, il
progetto è utilizzare i manufatti recuperati per eventi
culturali. Il primo ad essere coinvolto nel progetto
sarà il forte Verena dal quale è partito il primo colpo
italiano nella Grande Guerra
Da il
Giornale di Vicenza 19 ottobre 2013
Dopo il loro
recupero, ai manufatti lasciati dalla Grande Guerra
serve dare una seconda vita. È per questo che
diventeranno location di eventi in occasione del
centenario della Grande Guerra.
Si tratta di una delle priorità segnalate nel
documento programmatico del comitato scientifico
regionale per il centenario ed è pure quanto si
propone di fare il comitato locale per l'importante
anniversario. Un comitato, questo, composto dalle
amministrazioni locali e dal Consorzio Turistico e
impegnato a programmare una serie di iniziative,
molte delle quali si svolgeranno proprio all'interno
dei manufatti recuperati.
«Quest'estate abbiamo fatto un esperimento al forte
Interrotto con varie tipologie di iniziative -
spiega Roberto Rigoni, presidente del Consorzio
Turistico - Una prova per vedere che tipo di eventi
piace al pubblico e se la scelta di tenerli nei
luoghi della memoria, nonostante un'accessibilità
più difficile, sia gradita».
«Prova superata - conclude Rigoni - Adesso quindi
passeremo a identificare i luoghi più accessibili e
già dalla prossima estate dovremmo riproporre la
manifestazione “Forti in scena” proprio perché i
forti sono accessibili e perché si trovano nei posti
tra i più spettacolari dell'Altopiano».
Il primo forte ad essere coinvolto nel progetto
“Cultura - storia - turismo” nel centenario della
Grande Guerra sarà quello di Monte Verena grazie
anche ad un piazzale d'armi imponente ritrovato dopo
il duro lavoro di ripristino portato avanti dalla
Spettabile Reggenza e dal progetto Ecomuseo della
Grande Guerra delle Prealpi Vicentine.
Il Verena, a 2.015 metri, è il forte più citato
nella letteratura della Grande Guerra perché da qui
è partito il primo colpo italiano, il 24 maggio
1915. Per due settimane i suoi cannoni da 149 mm e
gli obici da 280 mm hanno martellato le fortezze
austroungariche provocando gravi danni.
«Bisognava eliminare il “Dominatore dell'Altopiano”
- spiega Leonardo Malatesta nel suo Il dramma del
Forte Verena - Per farlo gli austroungarici
impiegarono mortai calibro 305 mm, obici da 381mm e
il “Krupp” di 420 mm».
Proprio un 305 sparato da Costa Alta perforò la
corazza ed esplose all'interno della polveriera
uccidendo il comandante Umberto Trucchetti, due
sottotenenti e 43 soldati. La distruzione del Verena
è stato oggetto di un'inchiesta del Regio Esercito,
da cui emerge che nonostante sembrasse robusto era
stato costruito con materiali scadenti; per armare
il cemento erano stati utilizzati persino ferro
delle carriole e posateria. Gerardo Rigoni
TAVOLO DI LAVORO TRIVENETO SULLA GRANDE GUERRA
Dal sito dell'ufficio
stampa della Provincia di Trento |