Di
Federico Quagliuolo
Il Silurificio di baia fu uno dei più
importanti stabilimenti militari d’Italia.
Ne erano infatti solo tre in tutto il Paese
e proprio questo luogo diventò, durante
l’ultima guerra, la sede di uno dei progetti
d’ingegneria navale più segreti d’Italia.
Per giunta diventò il luogo in cui lavorava
l’intera area flegrea: basterà pensare che
nel 1943 c’erano addirittura 9000
lavoratori. Erano impianti avanzatissimi per
l’epoca, che addirittura erano sorvegliati
dai servizi segreti giapponesi.
Da Fiume a Via Gianturco:
l’inizio del Silurificio di Baia La storia
del silurificio di Baia, in realtà, comincia
da tutt’altra parte, in un territorio che
oggi nemmeno è più italiano. Nella “nostra”
Fiume, che oggi si chiama Rijeka in Croazia,
un imprenditore inglese di nome Robert
Whitehead sul finire del XIX secolo aprì uno
stabilimento per la produzione di siluri per
la Regia Marina. Fu un successo tale che, in
occasione dello scoppio della I Guerra
Mondiale e delle tensioni nel mediterraneo,
l’impianto produttivo doveva essere esteso
nel resto del Paese per prepararlo alla
guerra (che in effetti poi fu combattuta un
anno dopo). La zona scelta fu l’isolotto di
San Martino, che un tempo era meta di
pescatori e di vacanze: fu costruita una
grossa struttura in cemento per la
produzione di siluri, che ne realizzava
circa 10 al mese. La società inglese, però,
fallì e, per non perdere lo stabilimento,
intervenne lo Stato Italiano, che decise di
piazzarlo nella fabbrica di 2/7 Gianturco,
dove un tempo si producevano le automobili
elettriche De Luca Daimler. Poi, pochi anni
dopo, il nuovo governo fascista decise di
riprendere tutti gli stabilimenti di Baia.
Il siluro napoletano
Lo stabilimento del silurificio di Baia fu
un polo di eccellenza assoluta e, su tutti,
due nomi fecero il giro del mondo: i
napoletani Franco Smith e Carlo Calosi, due
ingegneri militari. In realtà,
incredibilmente, Smith nemmeno era laureato
in ingegneria. Era “solo” un genio, studioso
e appassionato di tecnica militare: fu
infatti il progettista di un siluro
estremamente efficiente, con un motore a 2
tempi e con una rapidità nel viaggio
straordinaria, di gran lunga superiore alla
media del suo periodo. Fu la sua invenzione
a valergli una laurea in Ingegneria honoris
causa all’Università di Napoli! Il siluro fu
chiamato “Siluro Napoletano” (anche perché
“Siluro Smith” poteva farlo sembrare un
prodotto britannico) e negli anni ’20 era
considerato fra i migliori prodotti di
ingegneria militare. Differente invece è la
storia di Carlo Calosi: un professore di
ingegneria elettrica che rivoluzionò
l’innesco dell’esplosivo: progettò e
brevettò infatti un congegno
elettromagnetico che, quando il siluro
passava sotto la chiglia della nave, in
presenza dell’enorme massa di metallo dello
scafo, si attivava e faceva esplodere
istantaneamente il contenuto. Poi inventò il
siluro ruotante, che riusciva a colpire il
bersaglio anche nel caso in cui si trovava
in anticipo o in ritardo rispetto ai calcoli
del lancio: se infatti non colpiva la nave,
il siluro avrebbe cominciato a ruotare su di
sé fino alla collisione con lo scafo nemico.
Questo diventò famoso come “Siluro Calosi” e
fu un’eccellenza produttiva di Baia.
Un’industria strategica nazionale
La posizione del Silurificio di Baia era
pressoché perfetta in termini strategici e
il governo fascista lo sapeva bene: rispetto
a Fiume era meno soggetto a possibili
attacchi stranieri e la vicinanza con l’Italsider
e con i cantieri navali di Baia era ideale.
Oltretutto c’era anche una marcia speciale:
i lavoratori procidani. L’Istituto Navale di
Procida, infatti, è sempre stato
un’eccellenza nazionale in termini di
preparazione tecnica dei suoi studenti e la
manodopera professionale fu di livello
elevatissimo. Fu così che nel 1934, sotto la
direzione dell’ammiraglio friulano Eugenio
Minisini, lo stabilimento di Baia cominciò
ad ampliare vertiginosamente la produzione,
assumendo manodopera specializzata da
Procida e da tutti i Campi Flegrei. Per
capire le dimensioni del silurificio di
Baia, dobbiamo immaginare che nel 1942 fu
realizzato sulla spiaggia del Fusaro un
gigantesco impianto per la fonderia e le
lavorazioni meccaniche, a Baia, sotto il
Castello Aragonese, venivano assemblate e
montate le armi, mentre sull’Isolotto di San
Martino c’era il luogo di test, il
siluripedio. Gli stabilimenti erano poi
collegati da una segretissima galleria
sotterranea di 1300 metri, che poi diventò
un luogo abbandonato nel dopoguerra.
I
progetti segreti del Silurificio di Baia
L’Ammiraglio Minisini era un vulcano di
idee. Letteralmente. Aveva quasi 70 anni
quando diventò direttore del Silurificio, ma
ragionava con l’entusiasmo di un giovane di
venti: mentre infatti la produzione di
siluri aumentava in maniera vertiginosa, si
dedicò segretamente allo studio e alla
realizzazione di nuovi sottomarini
sperimentali. Li chiamò i “SA” (Sommergibile
d’Assalto) ed erano minuscoli, rapidi e
letali: con i loro siluri, disegnati
appositamente per lo scafo particolare,
erano capaci di affondare navi e sottomarini
avversari senza nemmeno essere visti.
Minisini aveva infatti un desiderio:
superare la supremazia bellica dei tedeschi
in mare, con i loro leggendari U-Boot. Fu
così che durante la II Guerra Mondiale il
Governo Italiano decise di finanziare lo
sviluppo di uno dei progetti più segreti
della Marina Militare: SA1, soprannominato
Sandokan, SA2, soprannominato Yanez, e SA3,
soprannominato… kammamurì. (letteralmente:
“qua dobbiamo morire” in napoletano). Oltre
alle dimensioni minuscole, ciò che faceva
gola a tutti era un propulsore segreto
estremamente innovativo, progettato
personalmente dall’ammiraglio Minichini:
grazie alle particolari caratteristiche del
sottomarino e al motore avanzatissimo, il
sommergibile era più veloce di qualsiasi
nave allora in mare. Abbiamo notizie dei
Servizi Segreti Giapponesi che, ai tempi
dell’Asse, studiarono molto attentamente lo
sviluppo di queste armi e ne usarono le
tecnologie per la propria flotta.
Dell’ultimo sottomarino, il SA3, non
sappiamo però che fine ha fatto. Sono
sopravvissute solo alcune fotografie, mentre
i progetti tecnici non esistono più. Anche i
suoi rottami sono spariti. Secondo alcuni fu
affondato a Positano, dalle parti
dell’isolotto Li Galli, per non farlo
recuperare dagli Inglesi. Altri ritengono
che fu distrutto dai tedeschi (che, quando
si ritirarono, bombardarono con una violenza
inaudita il 5/7 silurificio, minando tutte
le strade e gli ingressi). Altri ancora,
invece, pensano che sia stato recuperato
dagli Americani e, data la segretezza
dell’arma, non sia stata fatta menzione nei
documenti ufficiali. Dopo l’occupazione
alleata del Sud Italia, infatti, il Quartier
Generale americano si interessò
immediatamente ai progetti segreti del
silurificio e ben pensò di smantellare e
portare tutto in America, compreso
l’ammiraglio Minisini che continuò a
lavorare a New York.
Fra motorini e radar
Distrutti, smantellati e ridotti in macerie:
gli impianti di Baia e del Fusaro, dopo la
guerra, furono praticamente inutilizzabili.
E con loro finirono disoccupati tutti gli ex
dipendenti, lasciando l’intera zona flegrea
nella disperazione e nella miseria. Fu
necessario solo l’intervento dell‘IRI,
l’Istituto per la Ricostruzione Industriale,
per riprendere le industrie e rinconvertirle
ai nuovi usi civili. E nel 1945, sul pieno
entusiasmo della ricostruzione, mentre a
Pontedera stava per nascere la mitica Vespa,
nello stabilimento di assemblaggio dei
siluri di Baia si cominciò a produrre il
Paperino, un piccolo scooter due tempi
destinato all’uso cittadino. Il destino
dello stabilimento del Fusaro del
Silurificio di Baia, invece, fu non meno
interessante: diventò infatti la prima
industria italiana di produzione radar con
il nome di Microlambda. L’iniziativa partì
da Carlo Calosi, il professore che inventò
l’omonimo siluro e che durante la guerra
accompagnò Minisini negli Stati Uniti: dopo
il 1945 volle tornare in Italia per
rilanciare il suo territorio. E ci riuscì,
dato che la Microlambda diventò fornitrice
dei servizi segreti degli Stati Uniti, con
radar prodotti da manodopera esclusivamente
campana. Proprio questa storia è raccontata
da Vincenzo Del Forno, ex dirigente dei due
stabilimenti.
La fine di un’epoca
Le avventure industriali di Baia, però,
erano destinate a finire in un ventennio.
Mentre il mondo sembrava continuamente
sull’orlo di una nuova guerra, e le armi in
preparazione non erano più “semplici”
siluri, ma armamenti atomici, nel blocco
occidentale scoppiava il boom economico e il
benessere che portò all’urbanizzazione di
tutta la costa campana. Cominciò così
l’abbandono o la riconversione degli antichi
stabilimenti produttivi in luoghi di
vacanza. E così Baia, che un tempo era terra
di vizi e di patrizi romani, ritornò di
nuovo alla sua naturale vocazione: bellezza
e vacanze in riva al mare. -Federico
Quagliuolo Riferimenti: Rivista Marittima –
Il ritorno di Sandokan (altomareblu.com) Top
Secret: sottomarini a Napoli, sommergibile
SA3 Kammamuri (altomareblu.com) Benedetto
Croce e il Silurificio Whitehead di Baia –
Storia – History – AIDMEN Whitehead Torpedo:
Its Origin and Italian Adaptation | Comando
Supremo Maurizio Erto, Bacoli 1919-2019,
D’Amico Editore, Bacoli, 2019 Matteo
marchesini, Il Navigatore, Vita nomade di
Carlo Calosi, UTET, Torino, 2009 Federico
Quagliuolo Fotografo e scrittore, classe
1992. Vado in giro con la Vespa alla ricerca
di tutte le curiosità nascoste dietro le
strade che esploro. Sono il fondatore di
Storie di Napoli, il gruppo di ragazzi
innamorati della propria città che oggi
conta tre libri pubblicati, 200.000 7/7 fan
e 2.000.000 di spettatori video. Ho studiato
al Liceo Sannazaro e mi sono laureato in
Giurisprudenza alla Federico II. Nonostante
gli studi classici, sono appassionato di
tecnologia e motori. Sogno un giorno di
poter raccontare tutte le storie d'Italia,
ispirato dalla penna di Gino Doria, Vittorio
Gleijeses e Luciano De Crescenzo.