Di
Alberto Bellotto
Nella Grande Guerra che infiamma l’Europa
tra il 1914 e 1918 c’è un conflitto nel
conflitto. È quello dei grandi forti che si
lanciano cannonate, in particolare
sull’Altipiano di Asiago. Se si pensa alla
Prima guerra mondiale e alle tante forme che
il conflitto ha assunto in Italia,
difficilmente vengono alla mente le immagini
di fortezze arroccate sulle montagne. Eppure
proprio da uno di questi, il Forte Verena
nel vicentino, alle quattro del mattino del
24 maggio 1915, parte il primo colpo di
cannone che dà ufficialmente inizio alla
guerra. Per i successivi tre anni questi
forti hanno avuto destini più o meno
avversi, ma secondo molti storici non sono
mai stati decisivi nelle sorti della guerra
e nello spostamento dei fronti. Nonostante
questo hanno rappresentato comunque uno
sforzo bellico ed economico notevole per i
Paesi coinvolti con storie a tratti uniche.
Le fosche previsioni di fine secolo
Gran parte dei forti italiani e
austro-ungarici viene costruita diversi anni
prima della guerra. Da un lato e l’altro del
confine c’era una certa ostilità nonostante
la firma della Triplice alleanza del 1882. I
governi unitari italiani di fine secolo
creano un comitato incaricato di pianificare
la realizzazione di una serie di barriere
difensive che vengono poi messe a cantiere
tra il 1883 e 1896. L’obiettivo principale
individuato dal comitato è quello di
difendere le città di Verona e Venezia in
Veneto, per questo viene progettato un
sistema di difesa di valli e valichi.
Tutto si arresta però nel 1896 quando
l’Italia si imbarca nell’avventura coloniale
in Eritrea. I progetti vengono congelati per
otto anni, fino al 1904, quando, complice un
miglioramento dei conti e maggiori
innovazioni tecnico-militari, riparte la
costruzione degli avamposti.
Ma la vera accelerazione arriva a ridosso
della guerra tra il 1808 e 1914 soprattutto
dal lato austriaco. Vienna, sotto la spinta
di Franz Conrad von Hötzendorf, capo di
stato maggiore dell’esercito austriaco, si
lancia in una vasta operazione di
costruzione e fortificazione del suo confine
meridionale. Conrad non era solo un
sostenitore della guerra contro la Serbia,
ma un fervente sostenitore che l’Italia
sarebbe stata un problema e che fosse
necessario attaccarla per prima. Nel 1908,
ad esempio, prova a convincere l’imperatore
Francesco Giuseppe ad attaccare per
approfittare dello stato di debolezza
nazionale causato dal terremoto di Messina
senza però riuscite a convincere
l’Imperatore. Passano tre anni e da Vienna
arriva l’impulso finale per completare le
fortificazioni.
L’avamposto
austriaco Spitz Verle
Il centro logistico austriaco di Campo
Gallina
Secondo molti storici, questa “corsa” ai
forti è una delle tante dimostrazioni di
come la guerra sia già predisposta da tempo.
Per averne un’idea plastica basta fare un
viaggio in località Campo Gallina, oggi una
zona montana tra le province di Vicenza e
Trento, ma nel 1900 punto sensibile del
confine tra Regno d’Italia e Impero
Austro-Ungarico. Nella conca gli austriaci
costruiscono in breve tempo uno dei centri
nevralgici della Strafexpedition, la
spedizione punitiva austriaca contro
l’Italia per il tradimento e il passaggio
con i nemici di Francia, Regno Unito e
Russia. A oltre 1.800 metri d’altitudine
viene costruita una vera e propria
cittadella con tanto di cinema, chiese,
ricoveri, magazzini, spaccio alimentare e
ospedale, un complesso capace di ospitare
fino a 25 mila uomini. Segno evidente di una
premeditazione.
Ai margini della guerra
Nei piani di Roma e Vienna i forti devono
svolgere una doppia funzione, difensiva e
offensiva. Il problema è che il Regno e
l’Impero si presentano alla vigilia dello
scontro in situazioni molto diverse. Per
quanto riguarda il fronte italiano il fatto
di aver iniziato la loro edificazione quasi
trent’anni prima dello scoppio delle
ostilità li rende superati dato che molti
non hanno mura in calcestruzzo armato o
cupole corazzate in acciaio. In più la
particolare conformazione delle montagne
costringe architetti e ingegneri
“spacchettare” i forti collocando al di
fuori delle strutture depositi, armerie o
ricoveri per la guerra ravvicinata. Allo
stesso modo polveriere e laboratori per i
proiettili vengono posizionati in lunghi
defilati allungando le linee di
rifornimento. Il genio austriaco,
diversamente, crea strutture molto più
corazzate. Ironicamente già negli stessi
anni del conflitto si sottolinea come i
forti autrici siano realizzati soprattutto
per reggere l’urto dei proiettili di grosso
calibro, senza concentrarsi su aspetti più
architettonici come fatto invece gli
italiani.
Ad essere diverse sono però le stesse
filosofie di gestione dei forti. L’idea
dell’Italia era stata quella di costruire
una rete di fortezze capaci di colpire e
martellare le artiglierie nemiche ma non le
truppe. I forti austriaci invece sono
collegati in maniera più organica e rispetto
agli italiani sono capaci di fungere da
presidio per la fanteria. In più Vienna li
considera come strumento chiave per dare
supporto alle truppe. Le fortezze italiane
invece sono isolate, quasi come castelli
medievali, ma a differenza possono essere
conquistati con facilità.
Dopo i primi successi nel 1915, il periodo
più difficile per l’esercito italiano lungo
la linea del fronte nell’Altipiano di Asiago
arriva nella primavera del 1916 quando le
forze austriache lanciano la spedizione
punitiva contro il traditore italiano. Il
fuoco di artiglieria che anticipa
l’offensiva scatta il 14 maggio del 1916,
quasi un anno dopo l’apertura delle
ostilità. Nel giro di 15 giorni le truppe
italiane ripiegano e le forze austriache
arrivano ad affacciarsi sul fiume Brenta,
prendendo parte della Val d’Assa, Arsero e
entrando ad Asiago tra il 27 e 29.
Successivamente Conrad è costretto a far
ripiegare le truppe in posizioni più
difendibili anche per una maggiore pressione
in altri punti del fronte. Nonostante questo
l’operazione ferma lo slancio italiano e
anzi permette all’Impero di mettere piede
sull’Altipiano e continuare a puntare alla
Pianura Padana.
Forte
Lisser
Avamposto nei
pressi di forte Luserna (foto Alberto
Bellotto)
Storia di due forti
In questo contesto il sistema dei forti si
mostrò marginale nel fermare le operazioni
belliche. Simbolicamente la storia di due
forti racconta molto bene limiti e fragilità
delle fortezze montane. Prendiamo proprio il
forte Verena, quello da cui viene sparato il
primo colpo della guerra. Costruito tra il
1910 e 1914, è il fiore all’occhiello del
genio italiano, costruito con materiali
all’avanguardia. Nei piani doveva essere la
punta di diamante contro le forze
austriache. Propio all’inizio delle ostilità
è il punto privilegiato per tenere sotto
tiro la linea del fronte sulla vicina piazza
del Vezzena, dove si trovavano le forze
austriache. Uno scenario ideale che gli vale
il nome di “Dominatore dell’Altopiano”.
Eppure il “dominatore” ha vita breve, per
uno strano mix nel quale l’ingrediente
fondamentale è la fortuna.
Meno di un mese dopo l’inizio del conflitto,
il 12 giugno, dalla piana del Vezzena, parte
un colpo e un proiettile da 305mm arriva sul
forte ed entra nella struttura. Qui le
versioni divergono. Secondo alcuni penetra
nel vano dell’ascensore del forte scoppiando
all’interno delle casematte. Secondo altri
il proiettile entra attraverso
un’intercapedine aperta temporaneamente per
combattere l’umidità presente all’interno.
La deflagrazione, indipendentemente dal
punto di ingresso, provoca la morte del
capitano Umberto Trucchetti e di altri 40
soldati. La struttura regge il colpo ma i
comandanti danno l’ordine di abbandonarla:
una mossa che di fatto cambia tutto il piano
difensivo che i forti come il Verena possono
garantire alla linea del fronte. Un anno
dopo la struttura cade nelle mani degli
austro-ungarici durante la spedizione
punitiva sancendo di fatto la fine del
“dominatore”.
Il colpo da 305 che sancisce la fine precoce
del forte è arrivato da un settore chiave
per le forze dell’Impero, quello della piana
del Vezzena, “coperta” da almeno tre
avamposti ravvicinati. Lo Spitz, usato come
avamposto per osservare i movimenti in
Valsugana, il forte Verle, il primo a finire
nel mirino del Verena nel maggio del 1915, e
soprattutto il forte di Luserna.
Soprannominato “il Padreterno” per al sua
sicurezza, è uno di quelli che subisce il
fuoco delle artiglierie italiane più
violento. Secondo una stima nelle prime fasi
della guerra sono piovute sul forte qualcosa
come 5 mila proiettili in poco meno di
quattro giorni. Nonostante questo il forte
regge e si guadagna anche il soprannome di
“frontiera d’acciaio”.
Lontano dai grandi teatri della guerra i
forti e il fronte sull'Altipiano si conferma
essere meno importante per gli esiti della
guerra, se non per le operazioni difensive
dell'esercito italiano. Già nel 1916,
durante la Battaglia degli Altipiani, le
fortezze, da una parte e dall'altra,
mostrarono i limiti davanti a una guerra
nuova, diventando un elemento di sfondo agli
alterni rovesci del conflitto. Oggi di
quelle fortezze restano i ruderi e i
tentativi di recupero soprattutto in
occasione del centenario della Grande
Guerra, testimoni del sacrificio di migliaia
di giovani gettati nel fuoco della guerra
per espugnarli.