Una famiglia siciliana
messa sotto i riflettori mediatici e la casa della loro infanzia
indicata come base per una torre di controllo aereo dei servizi segreti.
Cosa si nasconde dietro le dichiarazioni dell'ex poliziotto Antonio
Federico?
Di
Gianluca Zanella
Dell’ex poliziotto Antonio Federico abbiamo scritto l’ultima volta nel
maggio scorso. Contattato per un’intervista, ci aveva chiesto di
aspettare fino ai primi di giugno. Nel mentre, il 23 maggio andava in
onda un servizio della trasmissione Report dal titolo “La bestia nera”.
In questo servizio, il collega Paolo Mondani, indagando sui rapporti tra
mafia, servizi segreti ed eversione neofascista, veniva accompagnato
proprio da Antonio Federico in una sorta di tour nel territorio di
Alcamo, provincia di Trapani, sui luoghi che – una trentina di anni
prima – l’avrebbero visto protagonista di una storia ai limiti
dell’inverosimile, da lui raccontata anche in un libro scritto nel 2013
e mai dato alle stampe, ma che noi abbiamo avuto modo di studiare
attentamente.
Dopo
quell’ultimo contatto tramite messaggio WhatsApp, di Federico nessuna
traccia. Inutili i nostri tentativi di fargli qualche domanda e, da
quello che sappiamo, non è contento di quello che abbiamo scritto in
passato. E forse non lo sarà nemmeno di quello che andrete ora a
leggere. Di lui abbiamo iniziato a interessarci quando, a inizio marzo
2022, a Bergamo viene perquisita la casa di Rosa Belotti, presunta
“biondina” delle stragi del 1993 a Firenze e Milano, riconosciuta – a
quanto è stato possibile ricostruire – da una foto che proprio Antonio
Federico ritrovò in circostanze decisamente poco chiare durante una
perquisizione in casa di un carabiniere nel 1993. Foto non consegnata
subito, ma conservata per anni (il che si potrebbe configurare come un
furto) e, infine, apparentemente persa. O meglio, consegnata a qualche
non meglio specificato collega. Perché torniamo a parlare di lui?
Proprio in riferimento al servizio di Paolo Mondani andato in onda su
Report, nei giorni scorsi è stata depositata presso i tribunali di
Palermo e Trapani una querela nei confronti di ignoti. Gli avvocati
Andrea Capone e Pierluigi Fauzia hanno accettato di rappresentare il
signor Francesco Bonanno che con quel servizio – “La bestia nera” – ha
visto puntare i riflettori mediatici su di lui e sulla sua famiglia. Nel
corso del servizio, infatti, viene mostrata una struttura sita nei
pressi di Alcamo, precisamente in Località Fico, civico 147. Tale
edificio viene indicato da Antonio Federico – che vi accompagna il
giornalista Mondani – come lo stabile da lui individuato nel corso di un
sopralluogo notturno, grazie alle indiscrezioni di una misteriosa fonte
di cui abbiamo già avuto modo di parlare in altra sede, nel quale
avrebbe visto – affacciandosi dalla finestra – qualcosa di molto simile
a una torre di controllo aereo. La strumentazione elettronica, descritta
da Federico nel suo libro e attribuita senza ombra di dubbio alla
struttura Gladio, sarebbe poi scomparsa nel giro di pochi giorni quando,
una volta tornato sul luogo per la terza volta insieme ad altri colleghi
e ai suoi superiori, le stanze visionate nel corso di due sopralluoghi
notturni erano completamente vuote. Grande la sorpresa per la famiglia
Bonanno nel riconoscere in quelle immagini la casa in cui sono cresciuti
e in cui, fino al 2009, ha vissuto l’anziana Paola Mancuso, madre di
Francesco Bonanno. Ma non solo, nel servizio di Report, al minuto 59.25,
viene affermato che Antonio Federico, nel corso di questi sopralluoghi,
abbia trovato a poca distanza anche una pista di atterraggio.
Quanto rappresentato da Federico nel corso della trasmissione risulta –
secondo la querela presentata dagli avvocati – lesivo della dignità e
della reputazione dei Bonanno, che – dopo averci invitati ad Alcamo per
vedere con i nostri occhi l’interno della villa – ci assicurano che nel
1993 lo stabile era abitato dalla famiglia già da molti anni e che
nessuno dei suoi componenti aveva mai nemmeno sentito parlare di Antonio
Federico se non alla messa in onda del servizio. Un’altra inesattezza
presente nel servizio di Report riguarda la perquisizione che sarebbe
avvenuta presso i locali della struttura: “Nessuna perquisizione” ci
assicurano gli avvocati “e se anche ci fosse stata, non esiste alcun
verbale”. Se l’errore è giustificabile da parte di un giornalista, per
quanto esperto come Paolo Mondani, difficilmente spiegabile è il
comportamento di Federico, che avalla quanto mostrato nel corso della
puntata con le sue dichiarazioni. A tal proposito, in data 26 maggio
2022 gli avvocati Capone e Fauzia hanno inviato a Report una richiesta
di rettifica. Quattro giorni dopo, il 30 maggio, in chiusura di
trasmissione Sigfrido Ranucci dà conto della rettifica, ma aggiunge che
“per dovere di cronaca, diciamo anche che Federico queste cose le ha
confermate davanti a varie procure e anche in Commissione Antimafia”.
Possiamo a nostra volta confermare questo dettaglio e aggiungerne un
altro, non meno importante: Federico non è il solo ad aver parlato di
questa villa. A confermare il suo racconto, secondo alcune fonti, almeno
altre due persone, presumibilmente, facendo un ragionamento logico, dei
suoi colleghi o superiori di allora. “Per quale motivo non siamo stati
chiamati dalla procura?” si chiede al telefono con noi Marco Alfredo
Bonanno. E ce lo chiediamo anche noi. Per quale motivo, a fronte di
dichiarazioni del genere, i membri della famiglia Bonanno non sono
ancora stati sentiti dagli inquirenti? Forse il racconto di Federico e
delle altre persone viene considerato inattendibile? O c’è dell’altro?
“Credo che la Procura abbia tutti gli strumenti per verificare che
quella fosse la nostra casa – aggiunge Bonanno – ma in ogni caso siamo
pronti a dimostrarlo noi stessi. In quella villa non c’era alcuna base
segreta, ci vivevano i miei nonni e i miei zii”. L’immobile, iscritto al
catasto dal 1989, era di proprietà di Alfredo Bonanno, padre di
Francesco che ha dato avvio alla procedura legale, e, dopo la sua morte
(marzo 1993) è passato in eredità alla moglie, Paola Mancuso, deceduta
nel gennaio 2009, data in cui lo stabile viene definitivamente lasciato
in stato di abbandono, tanto che oggi raggiungerlo risulta piuttosto
difficoltoso a causa della vegetazione incolta. A differenza di quanto
sostenuto da Federico nel corso della puntata di Report, lo stabile non
si trova in località Calatubo, ma, come già detto, in località Fico.
Questo potrebbe essere un errore dettato dagli anni trascorsi, ma non è
l’unico. Altre cose non tornano. Ora, è innegabile una cosa: il defunto
Bonanno doveva certamente avere un gusto particolare in termini
architettonici. La struttura sembra infatti più un fortino militare che
non una villa adibita a uso civile. La sua stessa posizione isolata
sembrerebbe avvalorare un suo valore strategico. Eppure tanto Francesco
Bonanno, quanto Marco Alfredo Bonanno, sostengono con fermezza che no,
quella non era una base utilizzata dai servizi segreti, ma una villa
bifamiliare. “Nel 1993 – ci spiega Marco Alfredo Bonanno - quando
Federico dice di aver fatto il sopralluogo notturno, la villa era
abitata al piano terra da mio nonno e mia nonna, al piano superiore da
alcuni zii. È dimostrabile”. “A seguito del servizio su Report - ci
racconta l’avvocato Capone – i Bonanno sono stati tempestati di
telefonate da parte di numerosi concittadini che, riconosciuta a loro
volta la struttura mostrata in televisione, hanno chiesto se quanto
affermato corrispondesse al vero”. Un danno d’immagine come solo chi
viene messo sotto i riflettori mediatici può subire e comprendere, per
questo i due avvocati hanno chiesto ai Tribunali di Palermo e di Trapani
di procedere all’identificazione e all’accertamento dei responsabili del
delitto di diffamazione aggravata. A corredo della querela, gli avvocati
allegano a riprova di quanto sostenuto dai loro assistiti la visura
storica dell’unità immobiliare. Tornando alle cose che non tornano nel
racconto di Antonio Federico, sempre l’avvocato Andrea Capone ci
richiama a un dettaglio espresso dall’ex poliziotto nel suo libro del
2013. Citiamo testualmente: “Giunti sul sito, notai subito che le
telecamere poste a protezione e installate lungo il perimetro della
struttura erano state rimosse. Dal cancello principale, mentre io e il
mio superiore ancora stavamo all’esterno, si presento� una signora
anziana, che alla domanda posta dall’Ispettore Infantolino su chi
abitasse in quella casa con fattezze di bunker, rispose che era abitata
da lei e da sua madre, che malata viveva su una sedia a rotelle. Le
affermazioni di questa donna trovarono riscontro nel momento in cui
entrammo all’interno. Constatammo, infatti, la presenza di un’anziana
donna seduta su una sedia a rotelle. Mentre il collega le rivolgeva
qualche domanda, mi portai all’interno della stanza che avrebbe dovuto
custodire le apparecchiature elettroniche, che soltanto qualche notte
prima avevo scorto, ma entratovi, non mi rimase altro che prendere atto
di trovarmi in una stanza vuota. Avete capito bene, ERA VUOTA!!
[maiuscolo nel testo, nda]”. In questo passo tratto dal libro – in cui
Federico racconta del sopralluogo effettuato con il suo superiore – si
parla di due donne, madre e figlia. La prima in sedia a rotelle. “Nella
famiglia Bonanno nessuno è mai stato in sedia a rotelle – ci dice Capone
– ma c’è di più: in famiglia, nel 1993, non c’erano figlie femmine”. Il
“bandito poliziotto” Federico [come viene definito nel servizio Report
per la sua inclinazione a non seguire le regole, nda] parla di fronte
agli inquirenti due volte in merito a questi fatti: nel 1997 e nel 2008.
Lo fa riguardo alle connessioni tra il territorio di Alcamo e la
presenza sul territorio della struttura semi-clandestina Gladio, che –
stando a quello che gli avrebbe riferito sempre la stessa fonte, tale
Mark – si sarebbe macchiata nel 1976 dell’omicidio di due carabinieri
passato alla storia come strage di Alkamar. Torna, come già ricordato, a
rievocare questi fatti nel 2013, nel libro intitolato “La struttura
segreta di Gladio nel territorio di Alcamo”. Da segnalare che, secondo
alcune nostre fonti, il legame tra Gladio e la strage di Alcamo Marina
sia emerso solamente nel secondo interrogatorio, quello del 2008.
Memoria selettiva, verrebbe da dire. Ma al di là delle capacità
mnemoniche di Federico, la Procura di Trapani, nel 2008, di fronte a una
storia che, nel territorio di Matteo Messina Denaro, tira in ballo
servizi segreti deviati, traffici vari ed eventuali, che cosa ha fatto?
Per quale motivo non viene informata la Dda? E ancora: in quel periodo
la Direzione nazionale antimafia, allora retta da Piero Grasso, chiese
alla Procura di Trapani i verbali redatti a seguito delle dichiarazioni
di Federico. Perché non si ha notizia di indagini svolte? A nostro
giudizio, Antonio Federico sembra più interessato a costruire
un’avvincente trama romanzesca che non a fornire seri elementi che
possano avere riscontro oggettivo. E ci si chiede se tanta
approssimazione sia dettata da un vizio innocuo (magari una fervida
immaginazione e uno spiccato narcisismo) o nasconda una strategia per
ora insondabile. Altresì, ci si chiede come gli sia stato concesso –
fino ad oggi – di mettere in atto un tale comportamento. Per quale
motivo gli organi inquirenti non hanno preteso che dicesse la verità o,
almeno, una verità credibile? Per quale motivo non si è ancora giunti
(per quello che sappiamo) all’individuazione della fonte di Federico?
E
ancora, quando dice – e scrive (nel brano che abbiamo riportato) - di
aver effettuato il sopralluogo con il suo superiore e di aver trovato le
stanze vuote e le telecamere a perimetro della villa smontate, per quale
assurda ragione non sono state scattate delle fotografie? Per quale
altra assurda ragione non è stata redatta una nota di servizio riguardo
questo sopralluogo? Perché non si è proceduti all’identificazione delle
due donne trovate all’interno della struttura? Siamo nel 1993, un anno
dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio, lo stesso anno della bomba di
via Fauro, delle stragi di via dei Georgofili e di via Palestro, delle
bombe a San Giorgio al Velabro e a San Giovanni. L’attività di Federico
– secondo le sue stesse parole – si muove nella direzione di dover
individuare un presunto traffico di armi e materiale radioattivo che
coinvolge mafia e servizi segreti e, in questa attività, si imbatte
nella foto in cui dice di aver riconosciuto l’identikit della “biondina”
delle stragi. Eppure nulla è stato fatto. Anche le più elementari
attività che un qualsiasi inquirente farebbe di default in questa storia
vengono drammaticamente meno. Incompetenza? Dolo? Non lo sappiamo e non
sta a noi stabilirlo. Magari se le autorità inquirenti decidessero di
andare a fondo, se magari i Bonanno venissero sentiti, sarebbe possibile
un passo avanti in direzione della verità. Ma se sono passati trent’anni
dai fatti, difficile sperare in un’improvvisa accelerazione.
Nell’incredibile incertezza in cui siamo costretti a muoversi, quello
che resta di certo è l’impressione che Antonio Federico abbia avuto fino
ad oggi – anche negandosi alla nostra richiesta di un’intervista – un
atteggiamento ben poco limpido, come poco limpida è stata la sua
collaborazione con gli organi inquirenti e l’operazione di scrittura di
quel libro che, a dirla tutta, sembra scritto da una persona accecata
dalla rabbia o chissà cos’altro, ma che – l’abbiamo già detto – forse
contiene dei messaggi diretti a un pubblico molto ben selezionato.
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