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ANNO 2020
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I Castelli del Molise: tesori di storia e archeologia poco valorizzati |
Da termolionline.it del 22 febbraio 2020 |
TERMOLI. Il Molise, culla di storia, patria dell’archeologia e regina dei castelli: malgrado i circa 4mila 400 chilometri quadrati, il territorio può fregiarsi di un numero importante, contando oltre 160 siti e fortificazioni. Il dato è emerso durante l’incontro dal titolo ‘I Castelli del Molise – Fortificazioni e territorio’ organizzato dall’Unitre, cui hanno partecipato l’architetto e presidente Unitre Maria Luciani, la professoressa Unimol Lucia Checchia e l’architetto Lucio Giorgione, membro del Consiglio Direttivo Nazionale dell’Istituto Italiano dei Castelli. Accanto all’alta presenza di beni storico-archeologici fortemente identitari, però, non sempre corrispondono una valorizzazione ed una tutela degli stessi, come sottolineato dall’architetto Giorgione. I castelli, nello specifico, soffrono di alcuni ostacoli burocratici ed economici: “La chiusura continua o i mancati restauri. Si cerca di valorizzare e coinvolgere l’opinione pubblica in tutto questo, ma le difficoltà sono tante”. Una situazione che si allarga, a macchia d’olio, anche in altre regioni del sud che risultano le più penalizzate. Prima di poter riscoprirli, però, è necessaria mettere in atto un’indagine, delle ricerche storiche “per far capire al territorio che esistono queste emergenze. Se non c’è conoscenza è difficile farlo capire all’esterno. la continua ricerca, il continuo studio e la continua valorizzazione di questi castelli può portare ad una domanda turistica molto più elevata”, ha aggiunto Giorgione. Eppure, se si riuscisse ad investire economicamente per il recupero di questi beni, si potrebbe attivare una rete turistica dedicata alla storia di quei posti che si intreccia perfettamente con l’identità stessa dei luoghi in cui i castelli sorgono e raccontano storie che, spesso, non compaiono nei libri: “I castelli italiani sono legati alle vicende storiche d’Italia – ha concluso l’architetto – Seguendo le dinamiche storie degli stati prima dell’Unità d’Italia”. |
TORRI BORGHI E CASTELLI MEDIEVALI NELLA MARSICA |
Da terremarsicane.it del 16 febbraio 2020 |
Strutture fortificate ed incastellamento in area marsicana tra X e XII
secolo” Per quanto riguarda le fonti documentarie sono state utilizzate principalmente quelle anteriori al XII secolo, in quanto contemporanee all’inizio del processo di fortificazione del territorio, si tratta pertanto principalmente di documentazione di matrice monastica che rappresenta pero per la regione in esame l’unica fonte per quanto attiene i secoli finali dell’altomedioevo. Essa e costituita principalmente dai cartulari delle grandi abbazie dell’Italia centro-meridionale Farfa, Montecassino, Subiaco, S. Vincenzo al Volturno e S. Clemente a Casauria (RF, LL, ChF, ChCass, RS, ChS, ChV, ChCasaur). Lo studio condotto ha permesso di raggiungere alcuni significativi risultati per quanto attiene la genesi e lo sviluppo delle strutture fortificate medievali, le caratteristiche strutturali e costruttive degli impianti, il ruolo avuto dai castelli nelle trasformazioni dell’assetto territoriale della regione dall’antichita al medioevo. L’identita storica e territoriale della Marsica. legata alla popolazione italica dei Marsi, messa in ombra dal processo di romanizzazione che investe il suo territorio dal IV secolo a.C. e ne caratterizza l’assetto fino alla tardantichith, ha avuto uno dei suoi momenti di maggiore espressione ed affermazione a partire dal VI secolo, quando la Marsica diviene prima gastaldato longobardo nell’ambito del ducato di Spoleto, successivamente (X sec.) contea legata ad una famiglia comitale di origine transalpina, che una volta insediatasi nel territorio ne prese anche il nome, quella dei comites Marsorum (SENNIS 1994, pp. 13-22). E’ proprio nell’ambito di questo quadro storico che maturano e si realizzano le premesse del processo di incastellamento, con l’inserimento dei castelli nel sistema insediativo preesistente ereditato dalla tardantichita. Per quanto riguarda i tempi e i modi di realizzazione degli impianti fortificati l’analisi delle fonti documentarie e dei dati archeologici disponibili permettono di far risalire le prime menzioni relative all’esistenza di strutture fortificate nella Marsica al X secolo. ma e solo dalla seconda meta dell’XI che le attestazioni divengono più numerose. Per più di un terzo di esse e possibile cogliere un legame con l’operato del potere laico rappresentato nella Marsica tra X ed XI secolo dai conti o da esponenti della famiglia comitale dei Marsi. Questo gruppo familiare di origine transalpina, probabilmente proveniente dal regno borgognone, giunse in Italia al seguito del re Ugo di Provenza nella prima meta del X secolo e si inserì nelle questioni politiche e patrimoniali del centro Italia, disponendo di ingenti beni terrieri in aree limitrofe a quella marsicana (SENNIS 1994, pp. 25-34). In quel momento la Marsica era controllata e dipendeva quasi interamente dai grandi monasteri dell’Italia centro-meridionale (Farfa, Montecassino, Subiaco, S. Vincenzo al Volturno, Casauria) (SALADINO in questi stessi atti). I conti tesero allora ad inserirsi in questo sistema di potere, imponendo il loro controllo sul territorio per mezzo di tre operazioni: l’acquisizione di terre, mediante contratti a livello con i principali monasteri, la creazione di monasteri privati, a cui affidare la gestione dei beni fondiari, il controllo della sede episcopale (SENNIS, 1994, pp.39-40). A queste l’analisi dei documenti e la ricerca topografica ed archeologica permettono di affiancare, forse in un momento di poco successivo alla meta del X secolo, anche la creazione delle strutture fortificate o almeno di alcune di esse. Si e infatti constata una precisa relazione tra beni monastici concessi a livello ai conti e successiva realizzazione degli impianti fortificati nei siti oggetto di concessione. Esemplificativo a riguardo e il caso del monastero di S, Maria di Luco, fondato dalla contessa Doda, moglie di Berardo I, primo conte dei Marsi, donato a Montecassino e successivamente nella seconda meta del X secolo concesso a livello al conte Rainaldo II. Il documento che riferisce del contratto riporta i possedimenti del monastero cassinese in diciasette località, di queste undici risultano da documenti successivi fortificate. Si sarebbe pertanto attuato tra la meta del X e l’XI secolo un processo di fortificazione del territorio, promossoessenzialmente dai conti e realizzato sulla base del sistema insediativo esistente, del quale si mantiene integralmente il tessuto. Le stesse fonti testimoniano, infatti, il perdurare di forme di insediamento diverse da quelle fortificate legate da un lato alla maglia insediativa ereditata dalla tardantichità, dall’altra alla capillare rete dei centri monastici. Lo sviluppo dei castelli sotto la spinta del potere laico dei conti ne determina il carattere essenzialmente politico e strategico-militare, volto al controllo del territorio e all’affermazione della presenza del potere laico su di esso. Questo carattere si rispecchia nella localizzazione di questi impianti che privilegia i luoghi strategicamente rilevanti, in prossimità degli assi viari e delle zone di confine, in particolare verso Roma e i principati longobardi dell’Italia meridionale, e le relazioni con i patrimoni fondiari dei conti. Tali funzioni di controllo si coniugano in molti casi con funzioni residenziali assolte sia nei confronti di una popolazione civile stabile, sia degli stessi conti. Per quanto riguarda questi ultimi le fonti permettono di identificare alcuni castelli con funzione di residenza signorile (Trasacco, Carsoli, Auretino, Oricola, Civita/Carseoli, S.Donato, Balsorano). Le vicende interne alla famiglia comitale, che in particolare a partire dalla prima metà dell’XI secolo tendono a frammentare il controllo sul territorio attraverso la creazione di ambiti territoriali dipendenti dai vari rami della famiglia (Carseolano, Valle Roveto, settore nordorientale e sudoccidentale del bacino fucense), determinarono con ogni probabilità la mancanza di un centro del potere unico e formalmente prioritario e la conseguente proliferazione dei castelli, legati alla residenza comitale e alla gestione del potere. I siti noti dalle fonti come residenza comitale sono tutti menzionati dalle fonti come castra e si collocano in luoghi dalla evidente caratterizzazione strategica, oppure in zone in cui e massiccia la presenza di beni immobili legati alla famiglia comitale, in modo tale da costituire delle centralita geografiche nell’ambito della aree in cui sono inseriti . A partire dal X e fino alla fine dell’XI secolo, attraverso le fonti si coglie la progressiva espansione delle strutture fortificate a partire dal bacino fucense, per il quale si hanno le attestazioni più antiche (Civitas Marsicana, attuale S. Bendetto dei Marsi, Trasacco), verso il resto della regione con una significativa concentrazione lungo i principali assi viari . La distribuzione dei centri fortificati non sembra essere, almeno inizialmente, finalizzata ad un controllo sistematico del territorio, bensì la documentazione restituisce una situazione a ”macchia di leopardo” che solo per piccole aree e a partire non prima della meta dell’XI secolo si organizza in sistema, probabilmente in relazione con la formazione delle aree di pertinenza dei singoli conti. Tale processo trova un chiaro riscontro nella rete dei traguardi ottici fra i castelli, grazie ai quali la funzione difensiva e di controllo dei singoli impianti si estende. correlandosi a quella degli altri siti, ad un territorio più vasto. Un tale sistema di avvistamento e controllo del territorio si può riscontrare con particolare evidenza nella seconda meta dell’XI secolo nella Valle Roveto e nella piana di Carsoli, due aree che significativamente sono attraversate dalle principali vie di accesso alla regione, la prima dalla strada che collegava Alba Fucens con Sora, la seconda dalla via Tiburtina Valeria. L’inserimento dei castelli nell’assetto territoriale esistente avviene essenzialmente tenendo conto soprattutto della rete viaria. La stretta relazione che emerge tra fortificazioni e viabilità permette in primo luogo di verificare ancora nel X e nell’XI secolo la piena efficienza della rete stradale romana (QUILICI, 1983, p. 410). Ad essa si affianca una capillare rete di collegamenti a carattere locale, ma anche sovraregionale gia attiva in epoca romana, ma molto probabilmente erede della fitta maglia insediativa protostorica. In pieno accordo con la morfologia del territorio i castelli si collocano in prevalenza sui versanti montani dei quali privilegiano gli speroni aggettanti o i piccoli rilievi che si staccano dai versanti principali come nei casi di Marano, Civita d’Antino, Balsorano, Tremonti, Venere. Questa posizione consentiva un buon controllo delle valli e delle pianure senza ricorrere ad altitudini troppo elevate ed un facile collegamento con le zone coltivate e con la rete stradale poste alle quote inferiori. Quasi altrettanto numerose sono le fortificazioni collocate lungo le dorsali montane principali o secondarie che attraversano da nord-ovest a sud-est la regione. Di questi sistemi montani sfruttano i picchi isolati o i crinali da cui si può avere una visone globale del territorio circostante ed il controllo di due versanti montani (Castello della Ceria, Girifalco, S. Donato, Luppa, Carce, Camerata). Questa condizione si associa in alcuni casi con la funzione di controllo su valichi attraversati da strade (Pietracquaria, Girifalco, Castello della Ceria). Un gruppo non numeroso di fortificazione si pone invece su alture isolate o ai margini di pianure o alla confluenza di valli con evidenti caratteristiche strategiche, Albe, Castelvecchio di Sante Marie, Oricola. Poche strutture si collocano infine in aree pianeggianti, si tratta di impianti legati ad insediamenti preesistenti di epoca romana, Civita (romana Carseoli), S. Benedetto dei Marsi, Trasacco, o con particolari funzioni difensive di sbarramento (Le Starze, presso Balsorano). Per quanto riguarda i rapporti tra queste nuove forme di occupazione del territorio e la maglia insediativa preesistente, i dati che sono emersi sono fortemente condizionati dallo stato attuale delle conoscenze sull’assetto territoriale della regione per le epoche precedenti il medioevo, pertanto l’incidenza dei fenomeni di sovrapposizione, rioccupazione e continuità insediativa che si sono rilevati hanno carattere indicativo. Si sono riscontrati diversi casi di rioccupazione di fortificazioni preromane in cui si ha a volte una puntuale riutilizzazione del circuito murario preromano con integrazioni e sopraelevazioni (Carce, Rovine di Lecce), a volte sono il solo toponimo o la forma dell’impianto medievale a far ipotizzare una rioccupazione degli antichi siti come ad Oricola e a Morrea. Per tutti i municipia romani e attestata o sulla base delle ’ fonti, o delle testimonianze archeologiche, una fase fortificata nel X-XI secolo, ma i pochi elementi topografici noti per questi centri non permettono di capire se la fortificazione dell’insediamento abbia in questi casi comportato ed, eventualmente, in che misura ’ la trasformazione o la sostituzione degli apprestamenti difensivi di età romana. Sei strutture fortificate invece si collocano in prossimità di vici romani (Balsorano?, Bisegna?, Gioia vecchia?, Morrea, Venere), mentre due sono in vicinanza di ville di età imperiale (S. Potito, Bisegna). Rispetto a questi insediamenti le fortificazioni si collocano a quota più elevata ed in posizione dominante, ma in questi casi non e sempre accertata una continuità insediativa dall’epoca romana al medioevo. Per quanto riguarda le caratteristiche costruttive le fonti nel definire le strutture fortificate usano una terminologia piuttosto ripetitiva e standardizzata, dettata dagli usi notarili, imperniata essenzialmente sull’uso dei termini castrum e castellum, a cui si affiancano alcuni rari riferimenti ad elementi della fortificazione, quali porte e torri, non attestati pero prima della seconda metà dell’XI secolo (Tabella 2). Alle testimonianze delle fonti si affianca un patrimonio monumentale molto ricco e in numerosi casi inalterato da interventi recenti.
Dei trenta castelli noti dalle fonti entro l’XI secolo e stato possibile
ubicarne con precisione ventisette, di essi ventitre conservano ancora
oggi strutture in, elevato. Ad essi le ricognizioni sistematiche hanno:
permesso di affiancare altri quattordici siti, che presentano delle
strutture fortificate, non riscontrate nelle fonti prima del XII secolo,
ma che l’analisi stratigrafica degli elevati, ha permesso, almeno in via
di ipotesi, di attribuire ad una fase compresa tra X ed XI secolo. Dallo
studio delle strutture si e potuto verificare in primo luogo la varieta
tipologica di questi impianti risultato sia di continue trasformazioni,
sia di ricostruzioni a fundamentis, successive al momento della
realizzazione. In base allo stato attuale delle strutture conservate in
elevato si sono enucleate quattro tipologie principali: La ricognizione e lo studio stratigrafico delle strutture murarie conservate in elevato ha permesso di ampliare in modo consistente la conoscenza delle tecniche costruttive e dei cantieri che hanno realizzato questi impianti. Tutte le strutture sono realizzate con la tecnica a doppia cortina, con nucleo in conglomerato, costituito da pezzame di calcare, a volte frammenti fittili, e malta. Esulano da questo sistema solo alcune cinte murarie che sono realizzate con pezzame di calcare costipato senza uso di malta, per tutto lo spessore del muro (Civita d’Antino, Carce). In questi casi si tratta di strutture che si collocano in siti gia occupati da cinte fortificate preromane delle quali e stato evidentemente riutilizzato il materiale ed imitata la tecnica costruttiva. La natura geologica della regione marsicana, caratterizzata in prevalenza da calcari, ha determinato fin da epoca preromana un uso ininterrotto del calcare come materiale da costruzione, sia perché facilmente reperibile, sia perché di facile lavorazione, soprattutto se semplicemente spaccato o sbozzato. Le strutture fortificate sono tutte realizzate con questo materiale, che nella maggior parte dei casi doveva essere reperito sul luogo stesso della costruzione, come attestano ancora alcune cave abbandonate nei pressi dei siti fortificati (S.Donato, Girifalco), e che, a secondo della lavorazione e della grandezza dei blocchi, ha dato luogo a paramenti più o meno regolari. Nella maggior parte dei casi l’apparecchiatura dei paramenti e molto disorganica e la malta sopperisce alla disomogeneità del materiale In alcuni casi nel paramento sono inseriti rari frammenti fittili usati come ”inzeppature” tra il pezzame litico. Questi frammenti si sono rilevati un buon indicatore delle differenze fra le varie apparecchiature murarie. Posa in opera, omogeneità della grandezza del pezzame, tipo di malta e modalità di realizzazione di alcune parti costruttive, come gli angolari, sono stati gli altri parametri con cui sono state analizzate le murature. Si sono cosi delineati quattro grandi gruppi tipologici, al cui interno successivamente si potranno delineare ulteriori suddivisioni, ma che possono proporsi come punto di partenza per tracciare uno sviluppo diacronico di queste struttura. L’aggancio cronologico per stabilire una successione diacronica dei tipi e stata fornita dal tipo più tardo individuato, che per le caratteristiche tecniche, per la stratigrafia e per la presenza di elementi costruttivi datanti, quali la scarpatura, deve essere stata realizzata a partire dal XIII secolo. Questo paramento si distingue per un’apparecchiatura a filari composta da pezzame di calcare di misure omogenee senza inserzione di frammenti fittili. Tenuto conto di tali caratteristiche che nel ventaglio delle attestazioni costituivano il punto di arrivo di quello che sembra essere un lungo processo di regolarizzazione della posa in opera e delle dimensioni del materiale costruttivo, si e proceduto alla definizione degli altri tipi secondo quest’ordine e seguendo delle coordinate cronologiche che tenessero conto della stratigrafia degli elevati e dei dati delle fonti scritte. Si sono cosi definiti i seguenti tipi murari:
1) Paramento caratterizzato da apparecchiatura disorganica realizzata
con materiale molto disomogeneo nelle dimensioni con presenza in alcuni
casi di frammenti fittili usati come ”inzeppatura”, databile tra la fine
X e l’XI secolo;
Dal confronto fra le modalità di realizzazione delle strutture
fortificate e quelle note per i pochissimi insediamenti monastici della
regione attribuibili all’IXX secolo non si evidenziano differenze
sostanziali, identico e il materiale utilizzato ed i modi costruttivi.
D’altra parte l’impiego sistematico del calcare reperito sul posto sia
nei paramenti, che nel legante rende assai probabile l’esistenza di
maestranze locali, che conoscevano a fondo le risorse del luogo e che
prestavano la loro opera a committenze diverse. Infine per quanto
attiene le trasformazioni dell’assetto del territorio, la creazione dei
castelli non ha determinato, almeno fino all’ XII secolo, l’abbandono o
la crisi delle forme d’insediamento precedenti. Le fonti stesse
continuano ad attestare, contemporaneamente alla presenza dei castelli,
l’insediamento sparso, le curtes, i casali, le strutture monastiche.
Certamente una parte della popolazione ando a risiedere nei castelli, ma
a quanto sembra solo in piccola parte. Il trasferimento sembra
interessare principalmente due categorie sociali i servi e i contadini
di alcuni monasteri più importanti (S.Maria di Luco, S.Maria in Cellis),
ed i ricchi proprie tari laici, che in alcuni casi possiedono anche
parte dei castelli.
Sia le fonti, che i caratteri costruttivi di questi abitati permettono
pero di attribuire questi fenomeni poleogenetici al basso medioevo (XIV-XV
secolo). E’ pertanto ipotizzabile che se un processo di concentrazione e
nuclearizzazione del tessuto insediativo vi e stato, come d’altra parte
e attestato in ampie aree della Marsica fino ai primi del XX secolo,
questo si sia realizzato non contemporaneamente alla nascita dei primi
castelli, ma lungo un ampio arco cronologico che ha avuto certamente un
momento di sostanziale accelerazione in epoca normanna, quando il quadro
insediativo medievale risulta sostanzialmente compiuto ed i nuclei
demici sembrano essersi ormai per la maggior parte aggregati attorno ai
castra attestati nel Catalogus Baronum (CatBar, pp. 214-225). Testi della prof.ssa Maria Carla Somma |
Ma rafforzare le mura non basta. Emanuele Filiberto, valente generale formatosi sui campi di tante battaglie, ed esperto di strategia militare, sa quanto importante sia, nella difesa di una città, la presenza di un forte Mastio difensivo. E così, ordina all’ingegnere militare urbinate Francesco Paciotti (detto Paciotto) di costruire una Cittadella forte e solida: gli commissiona cioè una fortificazione militare che possa costituire un baluardo sicuro, un deterrente temibile anche per il più potente e arrogante degli invasori. In pochi anni, nasce così la Cittadella di Torino: un avamposto a difesa delle mura della capitale sabauda, una costruzione che lascia meravigliati tutti gli strateghi militari dei principali eserciti europei, che la invidiano, la ammirano e la temono. E sotto, invisibile all’occhio del nemico, un reticolo di gallerie ipogee, di passaggi segreti che possano permettere gli spostamenti delle truppe da un lato all’altro della città, con avamposti e cunicoli che spesso si spingono ben al di là delle mura. Tra le fortificazioni aggiuntive, volute da Emanuele Filiberto, c’è anche il Pastiss, edificato tra il 1572 e il 1574, con funzioni di baluardo e di avamposto difensivo. Il forte è stato riscoperto nel 1958 da Guido Amoretti e da Cesare Volante. Vi si accede da una botola delimitata da una griglia alta un paio di metri, aperta sul sedime stradale di via Papacino, all’angolo con corso Matteotti. Si tratta di un fortino, o meglio di una casamatta di difesa, con una muratura corazzata a prova di bomba. Sicuramente, quanto resta del Forte del Pastiss dopo i lavori di ampliamento urbanistico avvenuti tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, non rappresenta che una piccola parte di un più grandioso disegno di opere di fortificazione; ma è assai probabile che il progetto originario non sia comunque mai stato completato nella sua interezza. In ogni caso, quasi sicuramente, quella parte di fortificazioni avanzate della Cittadella, chiamate Pastiss, non furono mai teatro di azioni belliche. Il Forte è protetto da una muraglia esterna di 2,80 metri di spessore, sotto la quale si trova una galleria di contromina che serviva a disperdere, in caso esplosione di mine nemiche, l’onda d’urto e ad espellere i gas prodottisi attraverso 15 pozzi aperti nella volta a botte.
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Il Baluardo San Nicola verso una nuova vita |
Da laprovinciacr.it del11 febbraio 2020 |
Lunedì 24 febbraio via ai lavori di riqualificazione dell’area SABBIONETA (11 febbraio 2020) - Restituire un’adeguata fruibilità e un aspetto più consono al contesto monumentale della cinta muraria è l’obiettivo dell’intervento che prenderà il via lunedì 24 nell’area al piede del Baluardo San Nicola. Una zona attualmente adibita a parcheggio che però va decisamente risistemata. In tutto 81 mila euro di spesa (all’80% finanziati dalla Regione nell’ambito del Progetto AttrAct Sabbioneta) per un primo lotto che andrà anche a risolvere le situazioni di degrado in essere e a favorire una progressiva messa a sistema con la rete dei percorsi lungo le fortificazioni di Sabbioneta. |
Trump e i nuovi missili nucleari |
Da altrenotizie.org del 10 febbraio 2020 |
Il dipartimento della Difesa americano ha aggiunto di recente una nuova arma a “bassa potenza” al proprio arsenale nucleare che potrebbe alterare i già precari equilibri tra le principali potenze militari del pianeta e, a dispetto delle intenzioni ufficiali, provocare una conflagrazione atomica di proporzioni catastrofiche. I missili W76-2 sarebbero già stati installati a bordo di almeno una nave da guerra USA e il battesimo della loro operatività si intreccia pericolosamente alla competizione sempre più accesa tra Washington e Mosca, soprattutto per quanto riguarda il progressivo tracollo dell’impalcatura creata a partire dalle fasi finali della Guerra Fredda per limitare la proliferazione e ridurre il numero di armi nucleari a disposizione delle due super- potenze. Mentre il Pentagono non ha fornito dettagli circa l’impiego dei missili nucleari a “bassa potenza”, qualche giorno fa era stata la “Federazione degli Scienziati Americani” (FAS) a sostenere, basandosi su fonti civili e militari anonime, che questi ordigni già dalla fine dello scorso anno si trovano a bordo della nave da guerra “Tennessee”, impegnata nell’oceano Atlantico. La caratteristica dei missili W76-2 è quella di avere appunto una testata nucleare con una potenza inferiore rispetto allo standard di queste armi. Più precisamente, anche se non confermato dai vertici militari USA, essa sarebbe pari a cinque chilotoni, cioè circa un terzo della bomba sganciata su Hiroshima alla fine della Seconda Guerra Mondiale. La Associated Press ha citato come termine di paragone anche i missili W76, installati sui sottomarini “strategici” americani, i quali hanno una potenza di 90 chilotoni e i W88 di addirittura 475 chilotoni. A livello ufficiale, l’input alla costruzione dei missili a “bassa potenza” W76-2 era contenuto nel documento del Pentagono di un paio di anni fa che rivedeva la posizione americana riguardo l’uso di armi atomiche (“Nuclear Posture Review”). In esso si raccomandava la costruzione di questi nuovi missili balistici nucleari, lanciabili dai sottomarini (SLBM), per “garantire un’opzione di risposta rapida in grado di penetrare le difese nemiche” e per far fronte a una presunta debolezza del “deterrente” americano. Già nel 2015, l’allora vice-segretario alla Difesa, Robert Work, in un’apparizione di fronte alla commissione “Forze Armate” della Camera dei Rappresentanti, aveva in realtà spiegato la giustificazione sfruttata dal Pentagono per promuovere la produzione di missili nucleari a “bassa potenza”. La sua tesi si collegava prevedibilmente al comportamento della Russia, al cui governo attribuiva una decisione militare-strategica teoricamente minacciosa per gli Stati Uniti, anche se tutt’altro che reale. La dottrina militare russa in questione era cioè definita dagli USA come una “strategia di escalation per favorire una de-esclation”. Nel concreto, il Pentagono imputava e continua a imputare a Mosca la scelta di considerare, in una situazione di conflitto, anche l’uso limitato preventivo di armi nucleari, tra cui missili “a bassa potenza”, per costringere il proprio nemico a fare un passo indietro nel timore di innescare un’escalation nucleare. Su questa premessa, in larga misura per non dire del tutto ingannevole, si basa la decisione dell’amministrazione Trump di puntare su nuovi missili nucleari dalle potenzialità “limitate”. Invertendo le responsabilità, in altre parole, la disponibilità di armi di questo genere dovrebbe scoraggiare gli avversari degli Stati Uniti, come la Russia, dall’utilizzo di armi nucleari “a bassa potenza”, proprio perché ciò provocherebbe una risposta simile da parte di Washington. Nella logica contorta del Pentagono, ciò dovrebbe rafforzare il principio della deterrenza e far diminuire quindi il rischio di una guerra nucleare. In realtà, a livello generale, una strategia che preveda la consegna ai militari di un’ulteriore opzione nucleare può difficilmente essere considerata come un contributo alla pace. Nello specifico, inoltre, quest’ultima evoluzione della dottrina nucleare americana si inserisce in un progetto di modernizzazione e rafforzamento dell’arsenale atomico USA lanciato qualche anno fa dall’amministrazione Obama. Esso prevede una spesa complessiva di oltre mille miliardi di dollari e ha come obiettivo ultimo quello di cercare di arrestare, non esattamente con mezzi pacifici, il declino della posizione internazionale degli Stati Uniti. La natura artificiosa del pretesto usato da Washington per decretare la prima aggiunta al proprio arsenale nucleare strategico da decenni è testimoniata dal fatto che il governo e i militari russi non hanno stabilito in nessun documento né presa di posizione ufficiale la legittimità dell’impiego di armi atomiche in maniera “preventiva” o in risposta a un attacco “convenzionale”, a meno che quest’ultimo sia talmente devastante da mettere a rischio “l’esistenza stessa dello stato”. La rinuncia da parte di Mosca a queste opzioni è evidente sia dalla lettura del più recente documento strategico delle forze armate russe, risalente al 2014, sia dalle spiegazioni date nei mesi scorsi dal presidente Putin. Parlando ad esempio nel corso di un meeting del Valdai Club lo scorso ottobre, il numero uno del Cremlino fece riferimento proprio alle decisioni americane in proposito e affermò che “la dottrina nucleare russa non prevede [la possibilità di] un attacco preventivo”, ma soltanto un’eventuale “azione reciproca”, in risposta cioè a un attacco nucleare. A tutti gli effetti, è piuttosto la strategia degli Stati Uniti che prevede l’opzione di un’offensiva nucleare a fronte di “un attacco non nucleare” e di “un’aggressione convenzionale su larga scala”. La definizione di minaccia a cui è possibile rispondere con armi atomiche è chiaramente più vaga rispetto a quella adottata dalla Russia, dove l’unica ipotesi che includa un lancio di missili nucleari dopo un attacco “convenzionale” è collegata a una minaccia all’esistenza dello stato. Il vero obiettivo di Washington non è perciò tanto quello di rafforzare il proprio deterrente per evitare una guerra nucleare, quanto, in maniera inquietante, di colpire preventivamente con armi nucleari di “bassa potenza” paesi nemici, soprattutto se sprovvisti di ordigni nucleari, a cominciare dall’Iran. Ovviamente, anche attacchi dello stesso tipo potrebbero essere contemplati contro potenze nucleari, come la Corea del Nord, o le stesse Russia e Cina, confidando in una “de-escalation” o, per meglio dire, in una resa da parte di queste ultime per evitare l’annientamento nucleare reciproco. Questi argomenti propongono la tesi agghiacciante di una guerra nucleare che può essere combattuta e vinta. Che essi vengano seriamente presi in considerazione dai vertici politici e militari americani è confermato dalla coincidenza temporale della probabile installazione dei missili W76-2 sulla nave da guerra “Tennessee” con la decisione da parte del presidente Trump di assassinare a Baghdad il generale dei Guardiani della Rivoluzione iraniani, Qasem Soleimani. NBC News aveva scritto a fine gennaio che, nello stesso vertice da cui era uscita la decisione di uccidere Soleimani, Trump aveva autorizzato il Pentagono a colpire una serie di obiettivi militari iraniani, verosimilmente in caso di risposta all’assassinio del generale in territorio iracheno. Di fronte a queste informazioni, è legittimo ipotizzare come a Washington fosse allo studio una provocazione nei confronti di Teheran che, in caso di risposta, poteva fornire la giustificazione per condurre un attacco di ampia portata contro la Repubblica Islamica, forse anche con missili nucleari “a bassa potenza”. L’ipotesi della provocazione studiata a tavolino è ulteriormente irrobustita dalla recente notizia, proveniente dal governo di Baghdad, sull’identità dei responsabili dell’episodio che era stato all’origine della guerra sfiorata con l’Iran. Il 27 dicembre, Washington aveva denunciato il lancio di missili contro una propria base militare in Iraq, a seguito del quale era morto un “contractor” iracheno-americano, puntando il dito contro la milizia sciita filo-iraniana Ketaib Hezbollah, puntualmente colpita da una ritorsione che aveva fatto decine di vittime. Gli Stati Uniti avevano poi ricondotto la pianificazione del blitz al generale Soleimani, la cui morte sarebbe stata dunque una giusta punizione. Come rivelato da un’indagine del New York Times, dopo settimane da questi fatti è invece emerso da Baghdad che l’operazione contro la base americana situata nei pressi della città di Kirkuk sarebbe stata portata a termine non da gruppi paramilitari iracheni sostenuti da Teheran, ma da ciò che resta dei fondamentalisti dello Stato Islamico (ISIS). |
Macron: Force de Frappe più piccola ma deterrente nucleare dell’Europa |
Da analisidifesa.it del 9 febbraio 2020 |
La Francia ha ridotto il suo arsenale nucleare a meno di 300 testate. Lo ha annunciato il 7 febbraio il presidente Emmanuel Macron, illustrando il “bilancio esemplare” del suo Paese in materia di disarmo. La Francia – ha detto Macron in un discorso sulla strategia di difesa e dissuasione nucleare francese – “ha un bilancio unico al mondo, conforme alle sue responsabilità ed interessi, avendo smantellato in modo irreversibile la sua componente nucleare terrestre, le sue installazioni di test nucleari, quelle per la produzione di materie fissili per armamenti, e ridotto la dimensione del suo arsenale, oggi inferiore a 300 armi nucleari”. Emmanuel Macron ha proposto ai paesi europei “un dialogo strategico” sul “ruolo della dissuasione nucleare francese” nella sicurezza dell’Europa. “I partner europei che auspicano di impegnarsi su questa strada potranno essere associati alle esercitazioni delle forze francesi di dissuasione. Macron torna così a proporre di porre al servizio della Ue la “Force de frappe” (il deterrente nucleare di Parigi), consentendo quindi di costituire un’alternativa all’ombrello nucleare statunitense offerto ai paesi NATO. Con l‘uscita della Gran Bretagna dalla Ue, la Francia resta oggi l’unica potenza nucleare europea. La proposta francese rafforza ulteriormente l’esplicito tentativo di porre Parigi alla guida della politica di difesa comunitaria (https://www.analisidifesa.it/2019/09/macron-ottiene-ladesione-ellitaliaalleuropean-intervention-initiative/) consentendo al tempo stesso di condividere con i partner Ue i costi miliardari del suo arsenale nucleare basato su armi atomiche lanciabili con missili ASMP-A da cacciabombardieri Rafale (2 reparti dell’Armèe de l’Air e 2 reparti imbarcati sulla portaerei Charles De Gaulle) e sui 4 sottomarini nucleari lanciamissili balistici classe Le Triomphant dotati di missili balistici intercontinentali M-51. (https://www.navaltechnology. com/projects/triomphant/) |
“Turris”: il progetto turistico per far conoscere le torri di Langa si presenta a Murazzano |
Da unionemonregalese.it del 7 febbraio 2020 |
La torre di Murazzano, in uno scatto particolarmente suggestivo di Marco Aimo Appuntamento per sabato 8 febbraio nel salone polivalente. Proiezione in anteprima del video promozionale Tutto è pronto, ormai ci siamo. Il progetto promosso dall’Associazione “Turris” inizia a raccogliere i primi frutti dell’incessante lavoro portato avanti in questi anni. Sabato 8 febbraio, il salone polivalente di Murazzano, a partire dalle ore 18, ospita un evento tutto dedicato all’iniziativa nata con l’obiettivo primario di valorizzare e rendere fruibili ed aperte al pubblico le principali torri e fortificazioni medievali di Langa, Monferrato e Roero. Nell’occasione, dopo i saluti istituzionali del sindaco “padrone di casa”, Luca Viglierchio, e di Luigi Ferrua, sindaco di Rocca Cigliè e da qualche mese alla guida dell’Associazione “Turris”, si passerà alla proiezione in anteprima del video promozionale “Di torre in torre, di collina in collina”, realizzato e montato nei mesi scorsi, grazie ad una serie di spettacolari riprese aeree (tramite drone) delle torri dei Comuni che aderiscono all’iniziativa turistica. Alle 18.45 è prevista invece una relazione sulla cronostoria del progetto, durante la quale si scopriranno anche i progetti futuri in cantiere. «Ormai quasi quattro anni fa – spiega Luigi Ferrua – abbiamo iniziato questo cammino in otto, ora i Comuni invece sono 14, con l’ingresso di Monforte proprio in questi giorni e il futuro inserimento anche di Novello. “Turris” è già così un circuito molto valido, con un seguito importante, ma ovviamente dovrà essere sviluppato al meglio dal punto di vista dell’attrazione turistica. di Mattia Clerico |
Susa: l’area della ex Polveriera a San Giuliano bonificata dall’amianto Terminate le operazioni di bonifica di tutte le coperture |
Da lagendanews.com del 5 febbraio 2020 |
Susa ex polveriera militare SUSA – L’area dell’ex Polveriera di più di sette ettari precedentemente del Demanio Militare e ora di proprietà comunale si trova alle porte di Susa sulla Statale 24 e versava da decenni in stato di totale abbandono. Il finanziamento complessivo originariamente era di 300 mila euro di cui 107 mila del Patto Territoriale e i restanti da fondi statali. Giuliano Pelissero Assessore al Patrimonio e ai Rapporti con le Frazioni spiega. “Il progetto prende avvio con la firma dell’accordo in Municipio esattamente sei anni fa, nel 2014, tra l’ex Sindaco di Susa Gemma Amprino, l’allora Presidente della Provincia di Torino Antonio Saitta e l’allora Vice Presidente della Coldiretti Sergio Barone. Siamo particolarmente soddisfatti della conclusione di una prima fase di un percorso importante che ha coinvolto l’area della ex Polveriera in località San Giuliano“.
Susa ex polveriera militare ARRIVA LA SMART VALLEY “L’intervento faceva parte del programma di opere denominato “Smart Susa Valley”. Passano gli anni, il Progetto in qualche modo si tiene in vita ma ridimensionato nelle cifre. Ora, da pochi giorni sono state finalmente portate a termine le operazioni di bonifica di tutte le coperture delle strutture presenti nell’area. Un’operazione concreta di difesa dell’ambiente che i cittadini della Frazione, così come di tutta Susa, attendevano da tanti anni. Di ambiente non ci si deve limitare a parlare ma occorrono fatti concreti e misurabili. Va sottolineato che si tratta di un’operazione prodromica a qualsiasi altra ipotesi di destinazione di quella vasta zona che ha avuto in passato una vocazione agro pastorale“. UN RECUPERO Conclude Pelissero. “Occorrerà inoltre ragionare sul recupero funzionale in particolare di due grandi strutture ivi presenti. Ricordo che un edificio è attualmente già utilizzato come deposito di materiale comunale e in disponibilità all’Ufficio Tecnico“. |
Cosa vedere a Castel San Pietro Romano |
Da siviaggia.it del 5 febbraio 2020 |
Il borgo di Castel San Pietro Romano sorge arroccato su una collina e guarda dall’alto dei suoi 763 metri di altezza il panorama del Monte Ginestro. Castel San Pietro si trova a meno di 50 chilometri da Roma ed è uno dei paesi più piccoli ma più pittoreschi del Lazio. Il suo centro storico ha giovato di un’importante rivalutazione nel 2017, che ha portato Castel San Pietro ad entrare a far parte dei Borghi più belli d’Italia e ad essere premiato come una delle 100 mete d’Italia. Il nome del villaggio è da attribuire all’apostolo Pietro, che in antichità si ritirò su queste colline, ma l’origine di Castel San Pietro risale al Medioevo: la popolazione dell’antica Praeneste, ora Palestrina, si mosse tra queste alture in cerca di sicurezza e di luoghi più facilmente difendibili dagli attacchi dei nemici. Oggi Castel San Pietro si gode il suo splendore e si presta a piacevoli soggiorni di relax e scoperta, tra stretti vicoli, scorci panoramici e antiche fortezze. Cosa vedere a Castel San Pietro
Sul paese di Castel San Pietro
domina indisturbata la Rocca dei Colonna, una spettacolare fortezza
medievale che sembra fondersi alla perfezione con con l’ambiente
circostante. Un vero gioiello architettonico del borgo, voluta dalla
famiglia dei Colonna, il cui stemma campeggia ancora sull’arco d’accesso
alla Rocca. La sua funzione difensiva è palese, data la sua posizione
strategica che domina dal Monte Ginestro una vasta porzione del
territorio sottostante: dalle sue mura si possono infatti godere
panorami mozzafiato sui Colli Albani e Tuscolani e sui paesaggi della
campagna romana fino a Tivoli ed ai Monti Lucretili. Cosa mangiare a Castel San Pietro Castel San Pietro mostra tutta la bellezza e l’autenticità delle aree limitrofe alla Capitale anche nella sua gastronomia: verace, genuina e assolutamente da non perdere. È impossibile passare da queste zone d’Italia e non assaggiare un piatto di bucatini all’amatriciana o una carbonara preparata secondo la ricetta originale. La cucina tradizionale di Castel San Pietro offre piatti succulenti della cucina romano-montana: si passa dagli gnocchi a coda de sorica per arrivare allo spezzatino, e passando per una squisita pasta e fagioli ci si può tuffare poi su della succulenta carne alla brace. Senza dimenticarsi di dare un morso ad un giglietto di Palestrina, per completare l’itinerario enogastronomico: un celebre biscotto secco, oggi presidio Slow Food, dal sapore caratteristico e dalla singolare forma a giglio, da cui prende il nome. Il presepe vivente di Castel San Pietro
Nel poetico quadro di Rocca
dei Colonna, prende vita nel periodo natalizio il Presepe Artistico a
grandezza naturale. |
Quaderno 4 - Torre Borraco |
Da lavocedimanduria.it del 3 febbraio 2020 |
<La torre si trova in contrada Bocca di Boraco, a guardia dell’omonimo torrente di acqua dolce nel comune di Manduria. Nel sistema delle torri costiere costruite nel XVI secolo ricadenti nella provincia di Taranto, la torre Borraco é compresa tra Torre S. Pietro e Torre delle Moline. Costruita per difendere un territorio a rischio di invasioni dal mare, attraverso l’intervento di restauro la torre Boraco ha riacquistato la sua originaria funzione di presidio nel territorio costiero, perdendo l’accezione militare per diventare un punto di vista privilegiato per la contemplazione del paesaggio.>
Committenti D’Ayala Valva |
D’Alessio
«La torre versava in un grave
degrado: la parte basamentale dell’edificio ed in particolare i quattro
cantonali esterni erano fortemente deteriorati e presentavano importanti
sbrecciature ed ammanchi di materiale. Inoltre i crolli subiti dagli
elementi di coronamento e di gran parte delle caditoie, così come
l’implosione della volta e della copertura, avevano ulteriormente
deteriorato la statica del manufatto evidenziando fenomeni di distacco
delle pareti. All’interno del vano al primo piano era cresciuta una
rigogliosa vegetazione spontanea e addirittura un grande albero di fico.
Sulla
base degli elementi ancora esistenti si è proceduto alla ricostruzione
delle murature della controscarpa superiore e dei beccatelli, delle
archibugiere e delle caditoie, nonché del toro marcapiano di
coronamento. Laddove non si è potuto riutilizzare il materiale di spolio
si è utilizzato tufo carparo di Alezio con stilatura dei giunti con
malta di calce idraulica naturale, inerti silicei, polvere di tufo e
cocciopesto. Una leggera velatura a latte di calce lievemente pigmentata
e tonalizzata con terre esclusivamente naturali armonizza, pur senza
mistificare la sua origine posteriore, il nuovo materiale con quello
preesistente. La pavimentazione della copertura è stata realizzata con
lastre di Pietra di Cursi, mentre quella interna in battuto di
cocciopesto. https://www.archilovers.com/projects/83966/recupero-e-riuso-di-torre-daboraco.html «Ristrutturare un rudere del 500 con un tocco di modernità e, dopo aver lottato a lungo contro la Soprintendenza, vedere il proprio lavoro riconosciuto dalla prestigiosa Biennale di Venezia. É la piccola impresa portata a termine da tre architetti baresi: Lorenzo Netti, Gloria Valente e Vittorio Carofiglio, che hanno guidato il restyling di Torre Borraco, suggestiva struttura posta a pochi passi dal mar Ionio. L'edificio si trova nel territorio di San Pietro in Bevagna, frazione di Manduria, in provincia di Taranto. Il progetto rientra tra i 67 studi esposti nel padiglione italiano della rassegna, scelti su un totale di cinquecento candidature. Ai selezionatori è piaciuta l’aggiunta di una moderna e innovativa scalinata esterna che permette oggi di accedere al piano superiore della torre di avvistamento: un elemento questo addirittura assente nella conformazione originaria. La novità, documentata con una serie di fotografie dettagliate, ha così fornito un tratto distintivo a uno storico immobile che sembrava destinato al degrado.
Del
resto per il 2018 la famosa rassegna d'arte contemporanea, in programma
dal 26 maggio al 25 novembre, ha voluto celebrare proprio il "minuscolo"
dell’Italia: si è dato cioè spazio a microinterventi effettuati in paesi
di provincia, spesso trascurati, a discapito delle "solite" grandi opere
realizzate nelle aree urbane più popolate. Ma torniamo alla torre. "Si
tratta di uno stabile in “pietra di carparo” alto 12 metri - spiega
Netti -, usato secoli fa come postazione di vedetta per difendersi dai
pirati saraceni. Al piano superiore si accedeva tramite una rudimentale
scala interna, sfruttata dai guardiani che, in caso di pericolo,
accendevano dei fuochi per "avvisare" il territorio circostante. Anni e
anni di abbandono l'avevano però ridotto in rovina". La svolta arriva
nel 1998, anno in cui si decide di far partire i lavori di restauro. "Di
torri del genere ce ne sono diverse in Puglia - prosegue l'esperto -,
normalmente in mano allo Stato e riadattate a casermette della Guardia
di Finanza o a ponte radio, come per la costruzione presente a Santo
Spirito. Nel "nostro" caso invece l'immobile appartiene a privati: le
famiglie nobili D'Ayala Valva e D'Alessio, che alla fine degli anni 90
hanno finanziato la ristrutturazione con 150mila euro". Antonio Bizzarro su Barinedita.it |
Il Monte Cifalco e i fortini tedeschi della seconda guerra |
Da frosinonetoday.it del 3 febbraio 2020 |
Con Itinarrando L'arte di camminare raccontando sabato 8 febbraio alle ore 9,30 trekking a S. Elia Fiumerapido per l'escursione " I fortini tedeschi della seconda guerra e il Monte Cifalco". La linea Gustav fu una linea fortificata difensiva approntata in Italia con disposizione di Hitler del 4 ottobre 1943 dall'organizzazione Todt durante la campagna d'Italia nella seconda guerra mondiale Uno dei luoghi che i tedeschi prepararono minuziosamente è il monte Cifalco. Alto 947 metri e posizionato una decina di chilometri a nord di Cassino dove inizia la valle del Rapido, esso domina il valico tra due valli che puntano a nord: quella del Rapido e la valle d’Atina. Qui lungo la salita vi sono ancora - visitabili - le fortificazioni tedesche. Dettagli e prenotazioni: 380 765 18 94 sms whatsapp telefono *Obbligo di scarpe da trekking!
-> Guida: -> GUIDA: Alex
Vigliani, Guida Ambientale Escursionistica AIGAE operante ai sensi della
legge 4/2013 con codice - LA465 - Libero professionista con Partita Iva
03095230607 Numero max partecipanti 25
*Possibilità condivisione
auto
Roma secondo prenotazioni
Dettagli tecnici: |
In visita alla Rocca d'Anfo |
Da vallesabbianews.it del 1 febbraio 2020 |
Prima dell’inverno, noi studenti delle classi prime dell'istituto Perlasca di Idro abbiamo visitato la Rocca d'Anfo, la fortezza napoleonica più grande d'Italia
Lo scopo della nostra visita
era permettere a tutti di conoscere le bellezze del nostro territorio e
di fare gruppo, visto che eravamo i “primini”. |
Torrelunga, antiche mura a rischi crollo: l'Ailanto va estirpato |
Da giornaledibrescia.it del 1 febbraio 2020 |
Il crollo di dicembre: il baluardo della Pusterla, caduto per l’Alianto - © www.giornaledibrescia.it Le sue radici hanno infestato con arroganza una pietra millenaria dopo l’altra, insinuandosi tra le fessure e gli interstizi nel tentativo di scardinare le antiche mura. Tanto che i tecnici del settore Edilizia monumentale sono sulle sue tracce ormai da mesi. Lo hanno cercato, rintracciato, osservato e hanno studiato un piano per dargli la caccia. Specie perché «lui», l’Ailanto, il loro nemico numero uno, li ha bruciati sul tempo già una volta, quando nel mezzo di dicembre ha sbriciolato una parte della muratura del baluardo della Pusterla: la sua caduta... |