Di
Maura Sandri
Sorge su una terra che è
già piatta quanto il
mare. Una parabola da 32
metri, una distesa
interminabile di filari
d’acciaio a forma di
croce e tortelloni
fantastici. È in questo
luogo sospeso tra sogno
e realtà che si trova la
Stazione
radioastronomica di
Medicina, in provincia
di Bologna. A
raccontarcela è Jader
Monari, responsabile
della Stazione e
ricercatore all’Istituto
nazionale di astrofisica
Con l’intervista di oggi
inauguriamo un percorso
a tappe che, per qualche
settimana, si snoderà
fra l’Italia e l’estero
toccando molti telescopi
– dell’Inaf, ma non solo
– dei quali spesso avete
sentito parlare qui su
Media Inaf. Ce li faremo
raccontare direttamente
da chi ci lavora, per
scoprirli e anche per
viaggiare un po’, in
questi giorni di
reclusione forzata.
Senza trascurare qualche
domanda sulla situazione
attuale, con la maggior
parte degli osservatori
fermi per l’emergenza
coronavirus. Con
l’invito, appena questo
incubo sarà finito, ad
andare a visitarli di
persona. Partiamo dal
radiotelescopio che si
trova in questo momento,
almeno dal punto di
vista geografico, nella
situazione più critica:
la Stazione
radioastronomica di
Medicina. Sorge a una
trentina di km a est di
Bologna, andando verso
il mare, là dove
l’Emilia è lì lì per
farsi Romagna. Ci
risponde al telefono il
responsabile della
Stazione, Jader Monari.
Da pochi giorni Medicina
è in piena zona rossa:
anche i radiotelescopi
lo sono? Si continuano a
fare osservazioni?
«Dal momento in cui il
sindaco Matteo
Montanari, nella notte
del 16 marzo, ha
predisposto, tramite la
regione Emilia Romagna,
la chiusura dell’intero
Comune di Medicina –
perché la zona è stata
interessata da un numero
molto grande di casi
Covid-19, che hanno
riguardato specialmente
parte della popolazione
anziana che pare avesse
frequentato
ripetutamente un centro
sociale (a venerdì,
erano più di 94 i casi
riconosciuti in questo
piccolo comune) – è
stato creato un cordone
sanitario che impedisce
di accedere a Medicina e
Ganzanigo, le due
frazioni più vicine
dalle quali non si può
né entrare né uscire. Il
radiotelescopio chiamato
“di Medicina” in realtà
non si trova proprio a
Medicina, bensì in mezzo
alla campagna del
medicinese, in una
frazione che si chiama
Fiorentina, per cui in
linea teorica sarebbe
anche raggiungibile.
Tuttavia, come tutti gli
istituti Inaf, noi
stiamo seguendo le
indicazioni dettate dal
nostro direttore
generale e, per questa
specifica situazione
della stazione
radioastronomica,
essendo praticamente
confinante con un comune
ora delimitato come zona
rossa, stiamo limitando
al massimo gli accessi,
chiudendo tutta la
struttura. In ogni caso,
i radiotelescopi sono
bloccati, non stiamo
facendo osservazioni,
anche perché la parabola
da 32 metri doveva
essere sottoposta a
manutenzione. Siamo,
come si dice, in standby».
Quando
è stata l’ultima volta
che hai lavorato alla
stazione
radioastronomica?
«In realtà è un po’ di
tempo che sono in
quarantena perché, a
metà febbraio, sono
entrato in contatto con
persone che vivono in
una zona limitrofa a
quella del primo
focolaio italiano, in
Lombardia. Ho quindi
preferito tutelare i
miei colleghi e amici,
rimanendo in isolamento
per un paio di settimane
che, dopo il Dpcm dell’8
marzo, sono diventate un
mese e mezzo. Devo dire
che, anche se trascorsi
a casa, sono stati
giorni molto intensi, in
quanto sono stato molto
impegnato, come
responsabile, nella
gestione della stazione
radioastronomica. Negli
ultimi giorni, da quando
Medicina è diventata
zona rossa, sono in
stretto contatto con i
carabinieri, ai quali ho
mandato l’elenco della
turnazione dei
dipendenti Inaf, in
accordo con la nostra
Direzione».
La stazione
radioastronomica di
Medicina è unica nel suo
genere, puoi raccontarci
perché?
«La stazione
radioastronomica di
Medicina è un posto
particolare, per la sua
posizione e dal punto di
vista storico. La Croce
del Nord fu costruita
nel 1964, quando la
radioastronomia era
ancora agli albori. Si
trova in un contesto
molto vicino a Bologna,
quindi anche
relativamente comodo, in
una campagna sterminata,
molto bella e
affascinante. Fu
costruita in questa zona
perché effettivamente
era abbastanza vicina
all’università e
piuttosto comoda da
raggiungere. Il gruppo
di ricercatori di
Bologna studiava le alte
energie, ma era anche
interessato a fare
osservazioni
radioastronomiche. C’è
una leggenda che narra
il motivo per cui il
radiotelescopio fu
proprio costruito in
quel posto: la leggenda
dei tortelloni. Si
racconta che lì vicino
ci fosse un famosissimo
e buonissimo ristorante
che faceva dei
tortelloni fantastici, e
che questo fu l’elemento
che in definitiva portò
alla costruzione della
Croce del Nord proprio
in quel punto, potendo
il ristorante essere un
punto di riferimento
culinario per gli
operatori che hanno
costruito la struttura e
per i radioastronomi
poi. Purtroppo per noi,
ora questo ristorante si
è spostato a Medicina».
Radiotelescopio Croce
del Nord. Crediti: Jader
Monari
È un complesso molto
grande. Quanti anni ci
sono voluti per
realizzarla?
«La Croce del Nord è
stata costruita in tempi
rapidissimi, perché
all’epoca non c’erano
tutte le
regolamentazioni che ci
sono adesso. Inoltre,
per la costruzione della
stazione fu investito
anche il corpo militare.
Fu una cosa incredibile,
perché praticamente in
due anni venne costruita
questa enorme struttura
che a oggi è ancora in
piedi. Allora non si
faceva uso di computer e
i progetti venivano
fatti a mano. E non mi
riferisco solo ai
progetti
elettromagnetici, delle
antenne, ma anche di
quelli statici, della
struttura. Il
radiotelescopio Croce
del Nord è uno strumento
di 30mila metri quadri
di area collettrice, un
trentesimo di quello che
sarà Ska, il più grande
radiotelescopio al
mondo. È un
radiotelescopio che
ancora oggi, se venisse
reingegnerizzato,
sarebbe uno strumento di
punta per la
radioastronomia».
Il pubblico può visitare
la stazione
radioastronomica?
«Accanto alla stazione
radioastronomica c’è il
Centro visite “Marcello
Ceccarelli”, dedicato
alle visite da parte del
pubblico e delle
scolaresche. Il centro è
dotato di una sala
espositiva con exhibit,
esperienze interattive,
strumentazione storica e
una bella sala
multimediale. Con la
visita guidata,
prenotabile dal sito del
Centro Visite, è
possibile anche fare un
tour nella stazione
radioastronomica, per
osservare le antenne da
vicino. E il sito web
mette a disposizione un
tour virtuale del centro
visite e della stazione
radioastronomica, in
attesa di poter tornare
a visitare questi luoghi
di persona».
Quindi dalla campagna
medicinese si osserva
benissimo il cielo, o
forse dovremmo dire che
lo si riesce ad
ascoltare molto bene…
«Sì. A oggi, l’unica
cosa negativa di questa
posizione è la sua
vicinanza a Bologna, le
cui interferenze umane
(di natura radio) sono
decisamente più alte
rispetto a quanto erano
una volta. Uno strumento
così sensibile, in certe
bande risulta essere
accecato
dall’inquinamento a
radiofrequenza».
C’è anche un’altra
antenna, oltre
all’originalissima Croce
del Nord, vero?
«L’altra antenna è una
parabola di 32 metri di
classe medio-piccola,
riconosciuta come uno
strumento ad altissima
efficienza, nel senso
che opera molto bene e
solitamente non ha
lunghi tempi di
inattività, contribuendo
moltissimo alla
radioastronomia
nazionale e
internazionale. Anche
alla parabola nei
prossimi anni dovrebbe
essere fatto un upgrade
importante che prevede
l’installazione di uno
specchio attivo, in
grado di compensare le
deformazioni indotte
dalla gravità a seconda
del puntamento,
permettendo di avere
sempre una superficie
perfetta. Con questo
upgrade si potranno fare
osservazioni a frequenze
più alte. In questo
momento il limite è 22
GHz ma sicuramente
tenteremo di arrivare
intorno a 90 GHz, come
il Sardinia Radio
Telescope. Quindi, anche
se piccolina,
sicuramente farà
dell’ottima scienza, nei
prossimi anni».
La parabola da 32 metri
E la ricerca degli omini
verdi? Partecipate
ancora al famoso
progetto di ricerca di
intelligenze
extraterrestri?
«L’ex responsabile della
stazione
radioastronomica di
Medicina, Stelio
Montebugnoli, sebbene in
pensione, è attualmente
Seti Advisor della
Direzione scientifica
dell’Inaf. In questo
momento non stiamo
facendo attivamente la
ricerca in questione
perché la “macchinetta”
che ha sempre permesso
di farlo – che si chiama
Serendip IV – è stata
smantellata in quanto
non funzionava più. Però
è in corso la
progettazione di un
sistema analogo, basato
su un computer
potenziato in termini di
Cpu, che permetterà di
ottenere potenze
computazionali enormi,
rispetto a prima. In
questo momento la nuova
macchinetta è in fase di
test, e speriamo di
riuscire a breve a
metterla online per fare
nuovamente osservazioni
anche per questo
progetto. Vorrei però
ribadire ciò che dico
sempre, riguardo al
Seti, ossia la sua
scarsissima possibilità
di successo».
Per quale motivo?
«Perché nel corso degli
anni si è capito che il
progetto originale della
ricerca di un segnale
monocromatico è un po’
superata. Stiamo infatti
comprendendo, da come
evolvono le
telecomunicazioni in
ambito umano, che non
esiste più la portante
con le bande laterali
che contengono
informazioni, ma
sappiamo benissimo che
al giorno d’oggi le
comunicazioni vengono
fatte con sistemi
digitali, con
modulazione digitale,
dove le portanti non
esistono. Di
conseguenza, visto che
una delle ipotesi del
progetto Seti era
proprio la ricerca della
portante – intesa come
la bottiglietta in mezzo
all’oceano che, quando
trovata, anche senza
capirne il contenuto ci
fa capire che c’è
qualcun altro – dobbiamo
rivedere gli algoritmi
di ricerca del segnale.
Bisogna usare meccanismi
molto più complessi,
alcuni dei quali sono in
fase di studio da parte
del gruppo coordinato da
Montebugnoli. Tali
algoritmi sono in grado
di riconoscere un
segnale coerente
all’interno del rumore,
anche nel caso in cui
sia un segnale digitale.
Quindi, in definitiva,
al momento non stiamo
lavorando per il Seti ma
ci sono delle ricerche
in corso d’opera per
ripartire in quella
direzione».
L’expertise del gruppo
di Medicina vi ha
portato a essere
protagonisti di un’altra
avventura
internazionale: lo
Square Kilometre Array…
«È vero, una parte
sostanziale del gruppo
tecnico di Medicina è
coinvolta nel progetto
Ska, di cui io coordino
a livello nazionale la
parte a bassa frequenza.
Fino all’arrivo del
Covid-19, siamo sempre
stati in prima linea. A
fine gennaio, ad
esempio, siamo stati in
Australia per seguire
dei test sull’array che
abbiamo installato in
mezzo al deserto
australiano. Anche oggi
stiamo monitorando il
funzionamento dell’array.
Sono in corso tantissimi
sforzi in questa
direzione, anche da
lontano e nel pieno di
questa emergenza
mondiale. Speriamo di
poterli continuare a
perseguire anche dopo
questa emergenza, anche
se in questo momento la
stessa Australia sta
chiudendo tutto.
Probabilmente la
settimana prossima sarà
l’ultima opportunità per
andare in mezzo al
deserto perché poi il
sito verrà chiuso:
essendo molto remoto, si
vuole evitare che
qualcuno si ammali in
mezzo al deserto e resti
là. Medicina in tutto
questo è stato un po’ il
semino del progetto Ska:
tutto è partito
dall’idea di
reingegnerizzare la
Croce del Nord.
Dopodiché, la comunità
nazionale e
internazionale, grazie
l’expertise del team, ha
riconosciuto le nostre
competenze e oggi siamo
uno dei principali
protagonisti di questo
grande progetto. Tutto
questo ha portato, in
particolare a me, una
grande soddisfazione
perché comunque sia
mentre prima Inaf era
vista come la
Cenerentola del gruppo,
ora siamo visti quasi
come i principi, visto
che è stato pienamente
riconosciuto il grosso
sforzo che abbiamo
fatto, sia dal punto di
vista tecnico che
economico».