Il
geomorfologo
ungherese
Zoltán Ilyés,
ha
tratteggiato
che i
sistemi di
fortificazione,
e relative
opere (mura,
argini
artificiali,
fossati,
strade
militari etc.),
costituiscono
degli esempi
significativi
di forme del
paesaggio
legate
all’attività
umana (Human
landforms)
e,
nello
specifico,
di origine
militare,
quindi
realizzate
per fini
difensivi
e/o
offensivi,
secondo
tecniche
progressivamente
sviluppatesi
ed
affinatesi
nel corso
dei secoli (cfr.
Z. Ilyés,
Military
Activities:
Warfare and
Defence, in
J. Szabó, L.
Dávid, D.
Lóczy (Eds.)
Anthropogenic
Geomorphology.
A Guide to
Man-Made
Landforms,
Springer,
Dordrecht
2010,
Chapter 14,
pp. 216 e
segg.).
Relativamente
allo studio
delle forme
del
paesaggio
legate
all’attività
antropica
per scopi
militari,
oltre ai
metodi di
ricerca
propri delle
Scienze
della Terra,
appare
imprescindibile
il
contributo
delle
discipline
legate alle
Scienze
storiche,
quali ad es.
l’archivistica,
la storia
dell’arte e
dell’architettura
militare,
l’archeologia,
l’epigrafia,
etc.
L’esempio
del Castello
di Termini
Imerese,
nonostante
che gran
parte della
fortezza non
sia più
esistente
(ma della
quale
rimangono
ancora
alcuni
tratti
superstiti
di linee
difensive o
singoli
elementi
bastionati,
oltre a
brandelli di
strutture
murarie,
resti di
cisterne e
qualche
casamatta),
è
particolarmente
importante
nell’ambito
della
geomorfologia
antropogenica,
anche in
relazione
agli
avvenimenti
successivi
alla sua
vandalica
distruzione,
quali le
imponenti
modifiche
del sito
prodotte
dalle
attività di
cava.
Nuovi dati
d’archivio,
contemporanei
alla
distruzione
della
fortezza,
recentemente
scoperti
dagli
scriventi e
qui resi
noti per la
prima volta,
costituiscono
un originale
contributo
alla
ricostruzione
delle
vicissitudini
che
portarono
allo
smantellamento
della
piazzaforte,
collocata in
un sito di
crinale (o
displuvio o
spartiacque)
secondario,
dominante
sul
territorio
circostante,
naturalmente
difeso ed
altamente
strategico
per il
controllo
dell’intero
golfo di
Termini
Imerese e
del vasto
entroterra.
Una fonte di
prima mano è
costituita
dalle
deliberazioni
municipali
di Termini
Imerese,
suddivise in
due serie,
rispettivamente
denominate
di Consiglio
Comunale (ai
segni DCC) e
di Giunta
Municipale
(ai segni
DGM) che si
conservano
nella
Biblioteca
Comunale
Liciniana di
Termini
Imerese
(d’ora in
poi BLT).
Soltanto la
prima serie,
cioè quella
delle
Delibere del
Consiglio
Comunale,
inizia
dall’anno
1860 ed è
quella che
abbiamo
perquisito
ai fini
della
ricerca.
Illuminante
è la
deliberazione
del
consiglio
civico,
datata 14
Giugno 1860
(cfr. DCC,
1860-1862,
vol. 1,
sindaco Sig.
Dott. Don
Luigi
Marsala, 14
Giugno 1860,
Art[icolo].
n. 8, ms.
BLT, ai
segni DCC
1), ci
informa che
il Forte fu
sottoposto
ad un vero e
proprio «svaliggiamento
[sic]
commesso
dalla
plebaglia»
che non ebbe
rispetto
nemmeno per
la chiesa di
S.
Ferdinando
di Castiglia,
sino allora
di regio
patronato
(Regia
Ecclesia sub
titulo
Sancti
Ferdinandi
in Castro
Thermarum).
Le autorità
municipali,
da poco
insediatesi,
riuscirono
soltanto, in
fretta e
furia, a
salvare
poche cose:
in primis
«la campana
della
parrocchia
di detto
Forte» che
fu
«collocata a
titolo di
deposito
nella chiesa
di S. Carlo
[Borromeo]».
Nessuna
menzione del
dipinto,
opera del
pittore
Alessio
Geraci,
allievo del
frescante
Vito D’Anna,
raffigurante
il santo
titolare,
che doveva
essere posto
nell’altare
maggiore
della chiesa
eponima e
del quale fa
cenno il
letterato,
studioso e
critico
d’arte
palermitano
Agostino
Gallo
(1790-1872)
nel suo
manoscritto
Notizie di
artisti
Siciliani da
collocarsi
nei registri
secondo
l’epoche
rispettive
che si
conserva
presso la
Biblioteca
centrale
della
Regione
siciliana
“Alberto
Bombace”, ai
segni XVH.
20.1, f.
436.
Assieme alla
fortezza,
quindi,
scomparve
per sempre
anche la
chiesa di S.
Ferdinando,
sorta sul
sito del
medievale
luogo di
culto
castrense di
S. Basilio
(per quest’ultimo,
pur mancando
allo stato
attuale
delle
ricerche
documenti
probanti,
non è da
escludere
che fosse di
regio
patronato).
A proposito
della
parrocchia
di S.
Ferdinando,
rimangono
due volumi
cartacei
manoscritti,
contenenti
gli atti
ecclesiastici
relativi ai
sacramenti
ivi
officiati,
che si
conservano
presso
l’Archivio
Storico
della
Maggior
Chiesa di
Termini
Imerese
(d’ora in
poi AME) e
recanti,
rispettivamente,
le segnature
O 116
(1800-23) ed
O 117
(1824-60).
Ecco in
sintesi la
storia
controversa
di questa
parrocchia
che si
innesta
nella
diatriba
relativa
alle
cappellanie
maggiori dei
due regni,
rispettivamente
di Napoli e
di Sicilia.
La disputa
sorse a
seguito
dell’ingerenza
del
Cappellano
Maggiore del
Regno di
Napoli,
nell’ordine
i monsignori
Testa
Piccolomini,
Capobianco e
Gervasi,
che, ad onta
dei diritti
del
Cappellano
Maggiore del
Regno di
Sicilia,
estesero
pervicacemente
la loro
giurisdizione
sulle chiese
castrensi
dell’Isola,
in forza di
una certa
interpretazione
della bolla
Convenit di
Benedetto
XIV
(Prospero
Lambertini,
papa dal
1740 al
1758),
datata 6
Luglio 1741
ed accordata
al re Carlo
III di
Borbone,
relativi ai
diritti del
detto
Cappellano
Maggiore e
sulle chiese
palatine.
Per inciso,
soltanto nel
Gennaio
1799, per
sovrana
dichiarazione,
la
giurisdizione
sopra le
chiese dei
castelli e
delle
fortezze
dell’Isola,
tornò in
mano al
Cappellano
Maggiore del
Regno di
Sicilia,
Monsignor
Alfonso
Airoldi
giudice del
Tribunale
della Regia
Monarchia (cfr.
Della Chiesa
di Ustica e
sua
dipendenza
dal
Cappellano
Maggiore del
Regno di
Sicilia.
Memoria.
Reale
Stamperia,
Palermo
1807, pp.
37-38).
Nel 1778, il
sac.
palermitano
Ferdinando
Stabile,
avendo avuto
in
concessione
il 13
Giugno, dal
Cappellano
Maggiore del
Regno di
Napoli,
Monsignor
Matteo
Gennaro
Testa
Piccolomini
(1708-1782),
arcivescovo
titolare di
Cartagine,
le lettere
patenti di
Regio Paroco
[sic],
Beneficiale,
e Rettore
della Chiesa
di S.
Giacomo del
Quartiere
militare in
Palermo,
nonché
Vicario
Generale del
Cappellano
Maggiore di
Napoli,
iniziò ad
utilizzare
ufficialmente
questi
titoli e
prerogative.
Come ebbe a
scrivere
Candido
Aristea
(pseudonimo
dietro il
quale,
secondo G.
Mira,
Bibliografia
siciliana
etc., G. B.
Gaudiano,
Palermo
1875, vol.
I, p. 54, si
celerebbe il
palermitano
monsignor
Simone
Judica,
mercedario
scalzo,
cantore
ovvero
Ciantro
della
Cappella
Palatina),
lo Stabile,
in forza di
tali lettere
patenti, nel
1781, a sua
volta, spedì
la Patente
di
Cappellano
Regio del
Castello di
Termini al
Prete D[on].
Liborio Rini
[...] senza
considerare,
che il
recinto, e
la Chiesa di
quel
Castello era
soggetta
all'Arcivescovo
di Palermo,
da cui si
davano le
Patenti di
confessioni
al
Cappellano,
e che ai
Soldati ivi
stazionati
si
amministravano
i Sacramenti
dalla Chiesa
Matrice (cfr.
C. Aristea,
Difesa dei
dritti del
Cappellano
maggiore del
Regno di
Sicilia,
Solli,
Palermo M.
DCC. XCIV.
p. C).
Queste ed
altre
disposizioni
fecero ben
presto
intervenire
la
Deputazione
del Regno di
Sicilia e la
curia
arcivescovile
di Palermo
aprendo una
lunga ed
affatto
serena
contesa che
finì per
coinvolgere
anche il
parlamento
siciliano.
Il secondo
atto di
questa
querelle che
coinvolse
anche il
Castello di
Termini, è
menzionato
nei volumi
cartacei
manoscritti
della
parrocchia
di S.
Ferdinando,
dove si
legge che
con regio
dispaccio
del 6
Gennaio 13a
Indizione
1789,
Ferdinando
di Borbone,
IV di Napoli
e III di
Sicilia,
dietro una
consulta di
Mon[signo].re
Capp[ella].no
Maggiore Arc[ivescovo].
Sanchez de
Luna, cioè
il
napoletano
Isidoro
Sánchez de
Luna D’Anna
(1705–1786),
benedettino,
ratificò
l’istituzione
in
parrocchia
della detta
chiesa. Si
oppose
fermamente a
tale novella
istituzione
l’arciprete
sac. Dottor
Don Antonino
Sperandeo
Ganci (in
carica dal
20 Gennaio
1783 sino
alla sua
morte
avvenuta il
12 Gennaio
1817),
insistendo
sia sul
fatto che il
castello
ricadeva
nella
diocesi di
Palermo e,
conseguentemente,
la
giurisdizione
ecclesiastica
spettava di
diritto,
secondo i
sacri
canoni, alla
chiesa madre
di Termini,
comprensiva
dell’intero
territorio e
gli
abitanti,
senza alcuna
esclusione,
sia
insistendo
anche
sull’incompatibilità
dovuta alla
contiguità
eccessiva
tra le due
parrocchie.
La
controffensiva
si ebbe il
16 Ottobre
1790,
allorché il
nuovo
Cappellano
Maggiore del
Regno di
Napoli (in
carica dal
1789 al
1797), il
brindisino
monsignor
fra Alberto
Maria
Capobianco
(1708-1798)
dell’ordine
dei
predicatori,
arcivescovo
di Reggio in
Calabria (il
quale
pomposamente
si
sottoscriveva
Archepiscopus
Reginus,
Metropolitanus
Calabriæ,
Archimandrita
Joppoli,
Comes
Civitatis
Bovæ, Baro
Terre
Castellaccii,
Abbas S.
Dionysii,
atque
Regiarum
Ecclesiarum
S. Nicolai
de Buccisano,
Præfectus
Regia
Universitatis
Studiorum
hujus
Civitatis,
Serenissimi
Regis
utriusque
Siciliæ
Prælatus
Aulicus,
Consiliarius,
& Major
Capellanus),
spedì
lettere
sigillate di
fondazione
in
parrocchia
della chiesa
del Castello
di Termini,
e vi istituì
il parroco
Rini, in
virtù del
regio
dispaccio
del 28
Agosto 1790,
e sempre in
forza della
predetta
bolla di
Benedetto
XIV. In tali
lettere, si
insisteva
sul fatto
che il
recinto
fortificato
del
Castello, di
fatto, fosse
avulso dalla
città di
Termini,
essendo
chiuso da
ogni lato e
connesso con
l’abitato
esclusivamente
attraverso
dei ponti
levatoi (quod
castrum idem
undique sit
clausum, &
per
versatiles
pontes
solummodo ad
ipsum adest
iter), e si
interdiva
del tutto
l’ingresso
di qualsiasi
altro
parroco per
l’amministrazione
dei
sacramenti,
minacciando
sanzioni. Il
re, a sua
volta,
avendo
riconosciuto
che le annue
once 20 del
legato del
fu D[on].
Cristofaro
Pedrosa (già
castellano
di Termini,
che fece
testamento
il 19 luglio
1640 agli
atti di
locale
notaio
Francesco
Vassallo),
non erano
eseguibili a
favore della
nuova
Parrocchia
del Castello
di Termini
per le spese
di cera, di
lampada etc.,
volle
sostituirlo
con il
vacante
beneficio di
S. Angelo lo
Scopello di
Trapani,
pari ad once
84, e tarì
17. [grana]
4.
[piccioli]
2., di cui
once 7.[tarì]
40 per
congrua del
parroco,
ducati 58
per spese di
cera,
lampada, e
di un
Sagrestano,
e la somma
residua per
assegnamento
di un
Economo
Curato.
Inoltre,
avendo il
Rini negli
ultimi 6
anni
supplito del
proprio ad
alcune spese
necessarie
per le
suppellettili
sacre in
detta
chiesa, il
re gli
concedette
in compenso
un’annata
dei frutti
del detto
beneficio,
vacante già
da più di
due anni (cfr.
Della Chiesa
di Ustica...cit.,
Appendice di
Documenti,
Doc. VII,
pp. 8-11).
La nuova
parrocchia,
pertanto, fu
definitivamente
affidata
alle cure
del sac.
Beneficiale
Liborio Rini
Mirabella
(m. 26
Settembre
1812 di anni
58 incirca
colpito di
moto
apoplettico),
che ebbe
concessi
anche gli
antichi
benefici che
erano legati
al luogo di
culto
castrense,
molti dei
quali
divenuti
meramente
nominali,
spettanti
sulle chiese
di «S.
Egidio», «S.
Margherita»,
«S. Maria
della
Consolazione
della
Terravecchia
nella parte
inferiore
del
Castello»,
della
cappella di
«S. Antonio
Abate nella
chiesa
Madrice di
Termini» e
di «S.
Lucia».
Tanto per
far rimanere
la cosa in
famiglia, la
cappellania,
invece, fu
concessa al
fratello
sac.
Vincenzo
Rini
Mirabella (cfr.
Registri di
battesimo,
degli
sponsali e
dei defunti
della
parrocchia
di S.
Ferdinando
del Castello
di Termini,
voll. 2,
mss.
cartacei,
1800-1860,
AME). La
parrocchia
di S.
Ferdinando,
come risulta
dal libro
secondo dei
battezzati,
rimase in
funzione
sino alla
data
dell’armistizio,
il 31 Maggio
1860,
essendo
parroco il
sac.
termitano
Ignazio La
Cova.
Dopo gli
avvenimenti
del 1860, il
sito della
fortezza,
almeno
nominalmente,
rimase di
pertinenza
militare,
comprese le
servitù
spettanti.
Relativamente
a diversi
forti
italiani,
tra cui
quello di
Termini
Imerese, il
Regio
Decreto dato
a Torino il
16 Aprile
1862,
stabilì la
cessazione
di tutte le
servitù
militari
disposte dai
precedenti
regnanti e
l’acquisizione
al demanio
pubblico,
essendo
declassificate
dalle opere
di
fortificazione
e dai posti
fortificati
dello Stato.
Dopo il
selvaggio ed
indiscriminato
saccheggio
del
castello,
perpetrato
da una
moltitudine
inferocita
ed
esasperata
dai
recentissimi
cannoneggiamenti
sofferti
dalla città,
proseguì
l’implacabile
attività di
demolizione
delle
strutture,
facilmente
depredate ed
utilizzate
come
materiale da
costruzione,
senza alcun
impedimento
da parte
delle
autorità
preposte e
con il
rammarico
dei “cultori
delle patrie
cose”, come
si diceva a
quel tempo,
che si
adoperarono
per salvare
dall’oblio
almeno le
testimonianze
più
rilevanti
del glorioso
passato di
questo sito.
Tra le opere
d’interesse
storico,
linguistico,
epigrafico
ed
archeologico,
fu
recuperata
un’importantissima
iscrizione
monumentale
in lingua
araba ed in
caratteri
cufici,
datata agli
inizi degli
anni 60’ del
X sec. d.
C., essendo
in carica l’imam
fatimida Al-
u’izz
(341-365
dell’Egira;
952-975 d.
C.),
relativa al
rifacimento
del
complesso
fortificato.
L’epigrafe,
oggi
conservata
nel locale
museo
civico,
appare
intagliata a
rilievo in
alcuni conci
di una
biocalcarenite
dai caldi
toni
giallastri,
materiale
lapideo che,
probabilmente,
fu estratto
dai depositi
marini del
Pleistocene
inferiore-medio
presenti
nell’area
corrispondente
alle attuali
piane di
Palermo
(donde la
denominazione
commerciale
di “Pietra
di Palermo”)
e di
Bagheria
(“Pietra
dell’Aspra”
o “di
Solùnto”). I
predetti
elementi
litici «infino
[sic] al
maggio 1860,
erano
incastrati
nel muro
contiguo
alla porta
meridionale
del
principal
corpo di
quel
castello»,
come ci
informa il
grande
arabista
siciliano
Michele
Amari
(1806-1889),
nella sua
opera Le
epigrafi
arabiche di
Sicilia,
trascritte
tradotte e
illustrate,
parte prima,
L.
Pedone-Lauriel,
Palermo
MDCCCLXXV,
p. 11.
L’Amari, ci
fornisce
ulteriori
ragguagli:
«il popolo
di Termini
sollevato,
di maggio
[sic] 1860,
irrompea nel
castello;
ponea mano a
smantellarlo.
Generosi e
colti
cittadini,
tra i quali
posso
nominare il
barone
Enrico
Jannelli,
accorsero
allora al
castello per
salvare
dalla
distruzione
ciò che si
potesse. La
mercé loro,
tutte le
pietre,
comprese le
due che si
scoprirono
nel
demolire,
furono tolte
con
diligenza e
trasportate
alla casa
comunale;
dove
serbansi
tuttavia,
con altri
pregevoli
frammenti di
antichità
greche,
romane e del
medio evo.
Io le
studiai a
mio bell’agio,
andato
apposta in
Termini,
nell’ottobre
dello stesso
anno 1860.
Seppi allora
dal Jannelli
e da signori
Ignazio De
Michele e
cancelliere
Romano, che
altre pietre
con
iscrizioni
non si erano
trovate: e
vidi insieme
con quei
gentili
uomini gli
avanzi, o
piuttosto lo
scheletro
del
castello,
che tuttavia
lavoravano
ad abbattere
e in oggi
non ne resta
nulla» (cfr.
M. Amari, Le
epigrafi
arabiche di
Sicilia...cit.,
p. 12).
Il castello,
saccheggiato
e ridotto
sempre più
ad un
coacervo di
ruderi,
venne ben
presto
considerato
un mero
elemento di
“disturbo”
nel
paesaggio
urbano. Il
14 Novembre
1865,
essendo
sindaco
Giacinto Lo
Faso, il
consiglio
comunale, su
proposta del
consigliere
Giovanni
Marsala,
deliberò di
chiedere la
cessione
della Rocca
da parte del
governo al
fine di
togliere i
«gravi
inconvenienti
all’ornato
pubblico,
alla
salubrità, e
al decoro
della città»
prodotti
dalla
«mostruosità»
(sic) o
«deformità»
(sic)
costituita
«dalle
rovine del
detto
castello».
L’opera
devastatrice
continuò
sino al 1885
c. e da
questo vero
e proprio
“palinsesto”
storico ed
archeologico
fortunosamente
furono
altresì
recuperate
delle lapidi
funerarie di
epoca
romana, già
reimpiegate
come
materiali da
costruzione
nelle
strutture
murarie
della
fortezza,
che furono
acquisite
dal locale
museo civico
da poco
istituito (cfr.
Livia Bivona,
Iscrizioni
latine
lapidarie
del Museo
civico di
Termini
Imerese, G.
Bretschneider,
Roma 1994,
p. 157, 177;
O.
Belvedere,
Elementi
della forma
urbana, in
O.
Belvedere,
A. Burgio,
R. Macaluso,
M. S. Rizzo,
Termini
Imerese.
Ricerche di
topografia e
di
archeologia
urbana,
Palermo
1993, p.
33).
Alla
distruzione
della
stragrande
maggioranza
delle
strutture
fortificate
fece seguito
la modifica
sostanziale
dell’assetto
morfologico
della Rocca
calcarea
giurassico-cretacea.
A partire
dal 1873,
infatti,
furono
aperte
alcune cave
di pietra
calcarea, a
cielo
aperto, per
estrarre il
materiale
lapideo,
necessario
per la
realizzazione
della
struttura a
gettata di
massi, con
cui fondare
l’originario
molo di
sopraflutto
dell'erigendo
porto che,
attorno al
1914,
risultò già
finito nella
sua orditura
principale (cfr.
A. Contino,
Aqua Himerae.
Idrografia
antica ed
attuale
dell’area
urbana e del
territorio
di Termini
Imerese
(Sicilia
centrosettentrionale),
Giambra
Editori,
Termegrafica,
Terme
Vigliatore,
Messina,
2019, p.
66). In
conseguenza
di tale
attività
estrattiva,
si ebbe lo
stravolgimento
paesaggistico
della Rocca
e della
relativa
fascia
costiera
tanto che
l’aspetto
anteriore
all’apertura
delle cave
non è oggi,
in gran
parte, più
riconoscibile.
Soltanto
attraverso
l’analisi
complessiva
della
cartografia
storica
sinora nota,
relativa al
Castello di
Termini
Imerese (cfr.
L. Dufour,
Atlante
storico
della
Sicilia. Le
città
costiere
nella
cartografia
manoscritta
1500-1823.
Lombardi,
Siracusa
1992, 503 pp.),
è possibile
ricostruire
il paesaggio
anteriormente
alla
distruzione
del Real
Forte ed
alla
devastante
attività
estrattiva.
Scomparve,
anzitutto,
lo
spettacolare
promontorio
roccioso
denominato
“Muso di
Lupa”, che
riparava la
rada,
proteggendo
il mare di
pertinenza
dell’antica
tonnara di
Termini (cfr.
P. Bova – A.
Contino,
Termini
Imerese, dal
XII al XVI
secolo: il
promontorio
scomparso di
“Muso di
Lupa” e la
tonnara, in
questa
testata
online,
Domenica, 12
Gennaio
2020) ed il
relativo
ecosistema
costiero,
reso ancor
più
punteggiato,
per la
presenza di
una secca
sottomarina
sulla quale
furono
fondate le
strutture
del molo di
sopraflutto
o diga
foranea.
L’aspetto
paesaggistico
della parte
più elevata
della Rocca,
precedente
al 1860, è
stato
totalmente
stravolto a
causa
dell’attività
delle cave
predette che
hanno
letteralmente
aggredito,
quasi da
ogni lato,
distrutto o
snaturato le
forme del
rilievo
esistenti,
cancellando
letteralmente
una parte
geologicamente
recente
della storia
geomorfologica
di questo
sito. Basta
sottolineare
che persino
il culmine
fu abbassato
di almeno 6
metri.
Fortunatamente,
possiamo
farci almeno
un’idea di
come fosse
la Rocca
prima del
1860, grazie
al pittore e
studioso
d’arte
locale
Ignazio De
Michele Di
Littri (n.
1810),
autore di un
olio su
tela,
databile
alla prima
metà del XIX
sec. (nella
foto), che
si conserva
nella
sezione
ottocentesca
della
pinacoteca
del museo
civico di
Termini
Imerese. Si
tratta di
una veduta
abbastanza
fedele della
Rocca e del
Castello di
Termini
Imerese,
vista da
un’ottimale
angolazione
prospettica,
cioè dal
palazzo De
Michele sito
nel Piano di
S. Caterina,
oggi Piazza
S. Giovanni
(cfr. A.
Contino,
Aqua Himerae...cit.,
p. 64).
Analizzando
attentamente
l’iconografia
di questo
importante
dipinto, si
evincono dei
dettagli,
totalmente
sfuggiti
agli
studiosi
precedenti,
che
evidenziamo
qui per la
prima volta.
Innanzitutto,
la vetta
rocciosa era
costituita
da due
creste,
sulla più
alta delle
quali si
ergeva la
torre
principale
(o mastio),
quest’ultima,
limitata a
NO da un
impluvio che
nell’opera
ottocentesca
del De
Michele
appare
regimato da
un
collettore
artificiale
che doveva
avere la
funzione di
convogliare
le acque che
fluivano in
tempo di
pioggia,
proteggendo
le strutture
fortificate
da eventuali
danni
prodotti.
Inoltre, dal
punto di
vista
geologico,
le due
creste
corrispondevano
ad
altrettanti
grandi corpi
calcarei,
pendenti
verso N con
una
inclinazione
sull’orizzontale
di una
quarantina
di gradi
sessagesimali.
Per
comprendere
la genesi di
questi due
cospicui
corpi
rocciosi
carbonatici,
bisogna
tornare
indietro nel
tempo
geologico di
c. 150
milioni di
anni, quando
si
depositarono,
sotto forma
di flussi di
detrito (debris
flow), in un
bacino
marino,
aperto e
relativamente
profondo,
che nella
letteratura
geologica è
detto
Imerese
(perché la
successione-tipo
oggi affiora
soprattutto
nei Monti di
Termini
Imerese),
nell’antico
margine
continentale
africano (quest’ultimo
era separato
da quello
europeo per
mezzo dello
scomparso
oceano della
Tetide, cfr.
ad es. L. M.
Schoenbohm,
Continental–continental
collision
zone, in: J.
Shroder & L.
A. Owen, eds.,
Treatise on
Geomorphology,
Academic
Press, San
Diego, CA,
vol. 5,
Tectonic
Geomorphology,
2013, pp.
13–36). I
due predetti
megacorpi di
brecce
calcaree
grigiastre
del
Giurassico
superiore
(Formazione
Crisanti,
membro delle
Brecce ad
Ellipsactinia
del Titonico),
furono
originati
dall’accumulo,
in una
scarpata
sottomarina,
di cospicui
volumi di
frammenti di
varia
pezzatura,
che in
seguito
litificarono,
derivanti
dallo
smantellamento
di depositi
calcarei
tipici di un
contiguo
ambiente
marino poco
profondo (il
cosiddetto
dominio di
piattaforma
Panormide).
I due corpi
dovevano
essere
separati da
un contatto
erosivo,
verosimilmente
legato ad un
canyon
sottomarino.
Successivamente,
nel
Terziario, i
movimenti
tettonici
compressivi,
legati
all’interazione
reciproca
tra la
placca
continentale
europea e
quella
africana,
produssero
nei
rispettivi
paleomargini
imponenti
fenomeni di
raccorciamento
(generando
pieghe,
faglie
inverse e
sovrascorrimenti).
In tale
contesto,
furono
coinvolti
anche i
depositi del
bacino
Imerese che
vennero
sradicati,
traslati,
piegati,
fagliati ed
accavallati
sino ad
essere
inglobati
nella catena
montuosa
siciliana,
oggi
orientata
E-O (per
ulteriori
approfondimenti,
cfr. R.
Catalano, G.
Avellone, L.
Basilone, A.
Contino, M.
Agate, Note
illustrative
della Carta
Geologica
d’Italia
alla scala
1: 50000 del
foglio
609-596
“Termini
Imerese”-“Capo
Plaia”,
Istituto
Superiore
per la
Protezione e
la Ricerca
Ambientale,
Servizio
Geologico
d’Italia,
Dipartimento
di Geologia
e Geodesia
dell’Università
degli Studi
di Palermo,
2011, 224 pp.).
Le fasi
distensive,
innescatesi
tra la fine
del
Terziario e
gli inizi
del
Quaternario,
generalmente
ritenute un
effetto
dell’apertura
del Tirreno,
determinarono
il parziale
collasso
della
catena,
generando
faglie
dirette che
hanno dato
origine ad
un’alternanza
di blocchi
variamente
abbassati
(fosse
tettoniche o
graben) o
sollevati
(pilastri
tettonici o
horst, quale
l’alto
morfostrutturale
della
Rocca). Il
sollevamento
tettonico
regionale ha
poi
determinato
estese
azioni di
erosione
selettiva
che hanno
sempre più
evidenziato
morfologicamente
il rilievo
isolato
della Rocca
(costituito
da rocce
dolomitiche,
silicee e
calcaree,
relativamente
più
resistenti
all’erosione),
mentre nelle
aree
circostanti,
i depositi
prevalentemente
argillosi,
più
erodibili,
hanno subito
il
progressivo
abbassamento
della
superficie
topografica.
La presenza
nella
successione
Imerese
affiorante
nella Rocca,
di
un’alternanza
di orizzonti
più
erodibili e
più
resistenti
all’erosione
ha dato
origine a
pittoresche
forme del
rilievo
caratterizzate
da pendii
acclivi
dolomitici o
da alte
creste
calcaree che
si
intervallano
con declivi
più morbidi
corrispondenti
ai livelli
silicei (hard-on-soft
landforms).
Pertanto,
l’erosione
selettiva,
agendo sulla
vetta della
Rocca, ha
messo in
evidenza
morfologica
i due
megacorpi
calcarei
dando vita
alle duplici
creste
rocciose,
dalle
scarpate
molto
acclivi,
separate
dall’impluvio
impostatosi
lungo una
discontinuità
preesistente,
cioè
l’antico
canale
erosivo
sottomarino
fossile di
c. 150
milioni di
anni.
Queste ed
altre
testimonianze
della lunga
storia
geologica
della Rocca
sparirono
definitivamente
man mano che
le cave
modificarono
irrimediabilmente
l’aspetto
paesaggistico
di questo
pittoresco
sito, già
naturalmente
fortificato.
Le cave,
infatti,
distrussero
ogni traccia
degli
elementi
morfologici
che dovevano
costituire
una delle
più
suggestive
testimonianze
presenti nel
golfo di
Termini
Imerese
degli
effetti
combinati,
sia delle
ripetute
oscillazioni
del livello
relativo del
mare, sia
del
sollevamento
costiero
legato alla
tettonica
quaternaria.
Tali
elementi
morfologici,
attestanti
l’esistenza
di una costa
fossile,
quali le
falesie, i
solchi di
battente ed
anche
diverse
grotte
(usate come
deposito nel
XVII sec.).
La grotta
principale,
detta ‘di
Impallaria’
nel XVII
sec., si
apriva alla
base di una
lunga parete
rocciosa a
spiovente,
con altezza
massima di
circa 15 m,
che
rappresentava
la maggiore
delle
falesie
fossili. La
pittoresca
parete
rocciosa a
strapiombo,
è
chiaramente
raffigurata
nel
precitato
dipinto del
De Michele (cfr.
A. Contino,
Aqua Himerae...cit.,
p. 64). Le
cavità site
la base
delle
falesie
fossili,
erano state
prodotte
dall’azione
combinata di
fenomeni di
dissoluzione
carsica e
del
modellamento
operato dal
mare e,
soprattutto,
dal moto
ondoso, sul
calcari
giurassici
della Rocca.
Nonostante
lo scempio
prodotto
dalle cave,
ancor oggi,
però, alla
quota
grossomodo
corrispondente
alla base
delle
falesie
distrutte,
si
rinvengono
lembi di
depositi
marini di
spiaggia,
ciottoloso-sabbiosi,
con tutta
probabilità
testimonianti
dell’esistenza
di piccole
baie,
intervallate
da scogliere
rocciose
interessate
dalla
presenza di
una
piattaforma
d’abrasione
fossile di
una certa
ampiezza.
Questi
depositi,
scoperti da
uno degli
scriventi
negli anni
80’ del XX
sec., sono
discordanti
sui calcari
giurassici
della Rocca,
tramite una
superficie
di erosione
marina,
molto
articolata
alla scala
dell’affioramento.
La quota di
tali
depositi (c.
75-76 m
s.l.m.) è
compatibile
con le fasi
trasgressive
del
Pleistocene
medio,
legate
all’instaurarsi
di
condizioni
climatiche
calde che,
provocando
la fusione
ed il
conseguente
arretramento
delle coltri
glaciali,
cagionavano
l’innalzamento
del livello
generale del
mare.
Pertanto,
proprio
durante una
di tali
fasi, la
vetta della
Rocca del
Castello
doveva
presentarsi
totalmente
separata
dalla
terraferma,
a formare un
grande
isolotto,
bordato da
una costa
rocciosa
intensamente
modellata
dall’azione
del mare e
degli agenti
esogeni.
Nelle fasi
climatiche
fredde, al
contrario,
si aveva
l’espansione
delle coltri
glaciali
che,
sottraendo
una cospicua
aliquota
idrica,
cagionavano
l’abbassamento
del livello
generale del
mare ed il
conseguente
spostamento
verso il
largo della
linea di
costa.
Gli effetti
del
sollevamento
regionale,
sovrapponendosi
a quelli
prodotti
dalle
oscillazioni
climatiche
quaternarie,
finirono poi
per far
emergere
definitivamente
la predetta
linea di
riva,
divenuta
ormai
“fossile”,
comprese le
superfici di
abrasione,
le falesie e
le grotte
marine.
Queste
ultime,
verso la
fine del
Pleistocene
superiore,
ospitarono
più volte
l’uomo
preistorico
(cfr. A.
Contino,
Aqua Himerae...cit.,
pp. 36-37).
Riguardo
alle grotte
summenzionate,
lo storico
locale sac.
Vincenzo
Solìto (cfr.
V. Solìto,
Termini
Himerese
posta in
Teatro etc.,
tomo I,
Dell’Isola,
Palermo
1669, p.
120)
rammenta
l’interessante
tradizione
orale
secondo la
quale dei
nuclei
familiari
musulmani le
scelsero
come loro
dimora: «per
memoria da
Padri à
[sic]
figliuoli si
crede che à
[sic] quei
tempi quei
Saraceni
(….)
habitassero
[sic] vicino
al Castello,
e come
animali
nelle grotte
sotto al
Castello
medesimo». A
nostro
avviso,
questa fonte
orale
rimanda ad
una
tradizione
attendibile,
viste le ben
note
abitudini
trogloditiche
delle
popolazioni
berbere
islamizzate.
Interpretiamo
ciò come
indizio
della
presenza,
nell’area di
pertinenza
del
castello, di
insediamenti
trogloditici
berberi,
magari
eredità di
precedenti
abitati
rupestri
bizantini,
non a caso,
in un
settore già
frequentato
sin dalla
preistoria.
L’antica
fortezza
medievale,
per la quale
si può
postulare un
incastellamento
bizantino (kàstron),
come sembra
far
propendere
la presenza
di un luogo
di culto
castrense
dedicato
proprio a S.
Basilio di
Cesarea
detto il
Grande (uno
dei quattro
padri della
chiesa greca
assieme a S.
Gregorio di
Nazianzio,
S. Giovanni
Crisostomo e
S.
Atanasio),
sito
nell’area di
pertinenza
della torre
principale o
mastio del
castello. A
ciò si
aggiungono
anche i
ripetuti
tentativi da
parte dei
Bizantini di
riappropriarsi
della
fortezza
termitana
che ebbero
successo nel
957 con
l’impresa
dell’intrepido
Basilio,
protocarebo,
cioè
capitano di
vascello (cfr.
M. Amari,
Storia dei
Musulmani di
Sicilia,
vol. II, pp.
251-252), e
nel 964 d.
C. (cfr. M.
Amari,
Storia
deiMusulmani..cit.,
II, pp.
263-264).
L’incastellamento
bizantino, a
sua volta,
dovette
riutilizzare
il sito
dell’antichissima
acropoli di
un centro
indigeno,
verosimilmente
ellenizzato
dagli
imeresi,
forse già
durante
l'età
arcaica e
classica e,
successivamente,
importante
centro
fortificato
(phrourion)
cartaginese
ed
ellenistico,
oppidum
romano (dal
252 a. C.,
durante le
prima guerra
punica),
indi
considerevole
colonia
augustea.
Evidenziamo,
qui per la
prima volta,
la rilevanza
della
presenza,
nel sito
dell’antichissima
acropoli, di
un grande
slargo (sin
dal medioevo
destinato a
piazza
d’armi),
vero e
proprio
punto di
osservazione
privilegiato,
chiaramente
ubicato sul
fianco
orientale,
in posizione
nettamente
eccentrica
rispetto al
cosiddetto
mastio,
peraltro non
lontano
dall’ingresso
meridionale.
In ambito
mediorientale,
le fortezze
erano
caratterizzate
dalla
presenza di
una torre
maggiore
(nelle
lingue
semitiche
denominata
con le
grafie MGDL\MQTL,
letta
variamente
in maqtal o
migdal o
mogdul, cfr.
ad es. C. R.
Krahmalkov,
A
Phoenician-Punic
Grammar,
Brill,
Leiden 2001,
p. 128),
mentre il
grande
piazzale
risultava
decentrato.
Ciò ci
induce a
ritenere che
questa
peculiarità,
attestata
nel castello
di Termini
Imerese, non
sia affatto
casuale,
bensì possa
essere
interpretata
come un
retaggio
della
pianificazione
relativa
all’impianto
cartaginese
della
fortezza,
secondo
consuetudini
ben
documentate
nel
cosiddetto
“mondo
punico”
(cioè
nell’ambito
dei
discendenti
dei
colonizzatori
fenici
viventi
soprattutto
nel
Mediterraneo
centrooccidentale,
cfr. S.
Moscati,
Fenicio o
punico o
Cartaginese,
“Rivista di
Studi
Fenici”, 16,
pp. 3‐13).
Esempi di
tale
pianificazione
militare
cartaginese
sono stati
messi in
evidenza in
diversi siti
punici della
Sardegna (cfr.
F. Barreca,
La civiltà
fenicio-punica
in Sardegna,
Sardegna
Archeologica,
Studi e
Monumenti 3,
Prima
ristampa
1988, Carlo
Delfino
editore, p.
79). Del
resto, dopo
la
distruzione
della vicina
colonia
greca di
Imera,
Termini
Imerese (Θερμαί
Thermai o
Θέρμα Therma,
secondo le
fonti
greche,
toponimo
derivato
dalle
sorgenti
termali che
si ritiene
siano state
cantate da
Pindaro
nella XII
ode
olimpica),
sorse de
facto nel
407 a. C.,
proprio come
città
fortificata
cartaginese,
con dei
volontari
militari
provenienti
dalla Libia
di quella
epoca (cfr.
Diodoro
Siculo,
Biblioteca
Storica,
XIII, 79,
7-8) e,
secondo una
tradizione
riportata da
Marco Tullio
Cicerone
nelle sue
Verrine (cfr.
Verr., II,
35, 86),
accogliendo
anche i
profughi
imeresi (cfr.
D. Mertens,
Griechen und
Punier.
Selinunt
nach 409 v.
Chr.
“Mitteilungen
des
Deutschen
Archäologischen
Instituts,
römische
Abteilung”,
1997, 104,
pp.
301‐320).
Purtroppo,
le
successive
vicissitudini
del sito e,
soprattutto,
l’attività
di cava,
hanno
irrimediabilmente
cancellato,
senza
rimedio, uno
straordinario
“scrigno”
archeologico
lasciando
labili
tracce della
frequentazione
antica del
sito, quali
i resti di
alcune
grandi
cisterne,
rivestite in
cocciopesto
(opus
signinum),
tradizionalmente
ritenute
ellenistiche
o romane (cfr.
O.
Belvedere,
Elementi
della forma
urbana...cit.,
pp. 33-34).
Il kàstron
bizantino fu
verosimilmente
soppiantato
dal qal‘at
arabo, come
abbiamo
visto,
restaurato
nel X sec.
d. C. e
menzionato
due secoli
dopo dal
geografo
islamico,
attivo
presso la
corte
normanna,
al-Idrīsī
(italianizzato
in Idrisi,
n. c. 1100;
m. 1164-
165):
«fortezza
nuova»
edificata
«sopra un
poggio che
sta a
cavaliere
sul mare» (cfr.
M. Amari –
G.
Schiaparelli,
L’Italia
descritta
nel «Libro
del Re
Ruggero»
compilato da
Edrisi.
Memoria
letta nella
seduta del
17 dicembre
1876, “Atti
della Reale
Accademia
dei Lincei”,
anno CCLXXIV,
1876-77,
serie
seconda,
vol. VIII,
Salviucci,
Roma 1883,
pp. 27-28).
Il castello,
uno dei più
importanti
fortilizi
normanni (cfr.
H. Bresc, L’incastellamento
in Sicilia,
in M.
D’Onofrio, a
cura di, I
Normanni
popolo
d’Europa
1030-1200,
Venezia
1994, pp.
217-220; F.
Maurici,
Castelli
medievali di
Sicilia.
Guida agli
itinerari
castellani
dell’Isola,
Regione
siciliana.
Assessorato
dei beni
culturali
ambientali e
della
pubblica
istruzione,
Palermo
2001, 478 pp.),
si ergeva in
tutta la sua
imponenza,
esclusivamente
sulla parte
più elevata,
naturalmente
protetta
dalla
naturale
conformazione
geologica
della Rocca
(quest’ultima
con sviluppo
E-O, non a
caso secondo
la direzione
degli strati
rocciosi,
immergenti a
N).
L’antica
fortezza,
retta da un
castellano,
che
comandava la
guarnigione,
era parte
integrante
di una vasta
rete di
castelli
demaniali,
di proprietà
regia, o
castra regii
demanii (cfr.
H. Bresc –
F. Maurici,
I castelli
demaniali
della
Sicilia
(secoli
XIII-XV), in
F. Panero -
G. Pinto, a
cura di,
Castelli e
fortezze
nelle città
italiane e
nei centri
minori
italiani
(secoli
XIII-XV),
Cherasco,
Centro
Internazionale
di Ricerca
sui Beni
Culturali,
2009, pp.
271-317).
Il castello
medievale
era servito
da due ben
protetti
ingressi,
provvisti di
archivolti a
sesto acuto,
uno
settentrionale
ed uno
meridionale.
L’asse
viario
(ruga) di S.
Basilio
(Ruga Sancti
Basili), che
a N
conduceva al
castello,
iniziava dal
Piano di S.
Caterina,
fiancheggiato
dalle
abitazioni
di privati
cittadini,
che da un
lato si
addossavano
ai fianchi
dello sprone
roccioso
della Rocca
dell’Orologio
(dalla forma
di piramide
a base
triangolare,
che si
ergeva
isolato
immediatamente
ad occidente
dalla vetta
della Rocca
del Castello
ed era così
nominato per
l’esistenza
di un
orologio
solare). La
strada,
fiancheggiando
l’alta
falesia
della Rocca,
attraverso
un’erta
salita
accedeva
alla porta
settentrionale
della
fortezza. La
strada di S.
Basilio,
proseguendo
dentro il
perimetro
fortificato,
dopo aver
superato,
con
andamento
sinuoso,
vari
dislivelli
altimetrici,
raggiungeva
il culmine,
dove si
ergeva la
massiccia
struttura
della torre
principale,
dotata di
baglio, con
l’omonima
chiesa
castrense,
affidata ad
un apposito
cappellano,
dipendente
come
giurisdizione
dal
Cappellano
Maggiore di
Sicilia (dal
XVI dal
Giudice
della Regia
Monarchia),
per
l’assistenza
spirituale
dei militari
e dei
carcerati,
mentre al
controllo di
un custode
erano
assegnate le
oscure e
malsane
prigioni
(donde
l’altra
denominazione
di Ruga ad
carceres
Sancti
Basili). Nel
1571,
l’assetto
medievale
del
complesso
mastio-carceri-chiesa
castrense,
fu
profondamente
ed
irrimediabilmente
stravolto da
un evento
imprevisto e
catastrofico:
la
formidabile
esplosione
della
polveriera,
causata da
un fulmine
che colpo la
torre
principale
(i documenti
degli anni
90’ del
Cinquecento,
che
accennano
all’incendio
del Borgo,
nel colorito
linguaggio
del tempo,
utilizzano
spesso lemmi
siciliani,
parlando di
«trono»,
cioè tuono).
Sulla scorta
di eventi
similari,
riportati da
diaristi
palermitani
del
Cinquecento
(come quello
del castello
a mare di
Palermo del
19 Agosto
1592, cfr.
F. Paruta e
N.
Palmerino,
Diario della
città di
Palermo in
G. Di Marzo,
Diari della
città di
Palermo dal
secolo XVI
al XIX:
pubblicati
sui
manoscritti
della
Biblioteca
comunale di
Palermo,
“Biblioteca
Storica e
Letteraria
di Sicilia,
ossia
raccolta di
opere
inedite o
rare di
scrittori
siciliani
dal XVI al
XIX secolo”,
Biblioteca
comunale di
Palermo, L.
Pedone
Lauriel,
Palermo
1869, vol.
I, pp.
132-133),
possiamo
verosimilmente
ipotizzare
che
l’incendio
delle
polveri
dovette
provocare
una
terribile
deflagrazione,
che generò
un’onda
d’urto a
bassa
frequenza,
udibile
sotto forma
di boato
formidabile,
che dovette
essere
percepita
anche a
decine di
chilometri
di distanza.
Il castello
e l’abitato
dovettero
essere
scossi dalle
fondamenta e
non è da
escludere
che si
ebbero
crolli e
lesioni agli
edifici,
nonché
episodi di
panico nella
popolazione.
Subito dopo,
si dovette
avere una
ricaduta
(fallout) di
materiali
proiettati
dall’esplosione
che si
riversarono
sotto forma
di un nugolo
di detriti e
di spezzoni
lignei
ardenti. I
primi,
ricadendo
provocarono
vari danni,
mentre i
secondi,
innescarono
degli
incendi che
si estesero
inesorabilmente,
avendo
facile presa
sulle
onnipresenti
strutture
lignee delle
abitazioni
ed
oltrepassando
facilmente
gli angusti
vicoli (vanelle),
si estese a
macchia
d’olio,
bruciando
gran parte
dell’antico
quartiere
della
Terravecchia
o Vecchio o
del Borgo o
del Rabato,
dentro le
mura civiche
(intra
moenia), che
si allargava
tutto
attorno alla
fortezza
medievale,
comprendendo
anche il
sito
dell’attuale
Via
Serpentina
Paolo
Balsamo, che
infatti
rimase in
buona parte
privo di
edifici (cfr.
A. Contino,
Aqua Himerae...cit.,
p. 48 e pp.
182-184).
Una nube di
fumo, denso
ed acre,
dovette
avviluppare
la fortezza
e la città
in una cappa
nera ed
opprimente.
Non è noto,
allo stato
attuale
delle
ricerche, né
il mese, né
il giorno
dell’evento,
né tampoco
l’entità dei
danni in
termini
economici e
di vite
umane.
Questo fu
uno degli
avvenimenti
che
segnarono il
definitivo
tramonto
della città
medievale.
Per quanto
riguarda la
porta
meridionale,
elemento
sopravvissuto
del castello
medievale,
sappiamo
che, sino
alla sua
demolizione
(già
avvenuta
nell’ottobre
1860), si
presentava
nella sua
struttura
costituita
da due
arcate a
sesto acuto,
ubicate una
dietro
l’altra
(altezza
massima di
circa 6 m).
Di essa
esiste una
interessante
raffigurazione
del 1858,
riprodotta
nella
predetta
opera
dell’Amari (cfr.
Le epigrafi
arabiche di
Sicilia...cit.,
p. 12), dove
il grande
arabista
racconta il
lungo iter
che gli
consentì di
acquisire le
informazioni
di base
relative
alla già
citata
epigrafe
araba ed
alla sua
collocazione
a tergo
della porta
meridionale
del
castello,
anteriormente
al fatidico
1860: «Di
cotesta
iscrizione
io feci
parola nella
Storia dei
Musulmani di
Sicilia,
tomo II,
pag. 274,
nota 3,
accennando
alla
speranza che
un giorno la
si potesse
legger
meglio. E
poiché m’era
tolto,
quand’io
pubblicai
quel volume,
di tornare
in Sicilia,
volli
procacciarmi
delle
impronte su
carta, sì di
questo e sì
d’ogni altro
monumento
d’epigrafia
arabica che
possediamo
in Sicilia.
Non era
facil cosa
allora a
ritrarre un
cantuccio
dell’innocuo
castello di
Termini. Ci
si provò,
primo, il
mio ottimo
amico, e in
oggi
carissimo
congiunto,
Francesco
Sabatier, in
un viaggio
ch’ei fece
in Sicilia
nella
primavera
del 1858,
per
istudiare i
monumenti
dell’antichità
e del medio
evo. Ma il
comandante
del
castello,
dopo averlo
cortesemente
accolto e
mostratagli
la
iscrizione,
ricusò di
farne levare
le impronte.
Per l’amor
del cielo,
gli disse,
io sarei
denunziato
se vi
vedessero
con un lapis
in mano in
questo
castello! Io
ho gli
ordini più
severi. E lo
accomiatò.
Rivoltomi
allora al
duca di
Serradifalco
[Domenico Lo
Faso e
Pietrasanta,
1783-1863,
archeologo,
architetto,
letterato e
patriota],
benemerito
dell’archeologia
e
volenteroso
ad aiutarmi
in quelle
mie
ricerche, ei
prese altro
cammino, e
riuscì
nell'intento.
Chiestane
licenza al
comandante
generale in
Palermo,
egli mandò
in Termini
persona
abile,
accompagnata
dal
professor
Salvatore
Cusa
[1821-1893],
che fin
d’allora
insegnava
paleografia
greca ed
arabica
nell’Archivio
regio di
Sicilia. E
così, allo
scorcio
dello stesso
anno 1858,
io m’ebbi in
Parigi una
bella
impronta
della
iscrizione e
di più un
disegnetto
colorato del
muro
dov’essa era
incastrata e
della porta
attigua. La
curiosità
nostra, dico
del
Serradifalco,
del Cusa e
mia, non fu
soddisfatta
con ciò.
S’era
accorto il
Cusa che la
iscrizione
continuava
sotto una
fabbrica
aggiunta; se
n’era
accertato
facendovi
praticare un
buco. Ma la
cosa restò
lì. Regnando
Ferdinando
II che avea
in uggia e
in sospetto
perfin
l'abbiccì,
non era da
sperare che
si mettesse
la
martellina
nella casa
d’un
castellano,
per far
piacere ad
archeologi
ed
orientalisti».
L’Amari (cfr.
Le epigrafi
arabiche di
Sicilia...cit.,
p. 17),
concludendo
la sua
disamina
scrisse:
«Maggior
voglia
avrei, ma
non meno
scarsi
mezzi, di
investigare
se quella
piccola
porta coll'arco
aguzzo che
si vede nel
disegno, si
possa
riferire
alla
dominazione
musulmana.
Invero non
sarebbe
impossibile,
né
inverosimil
cosa, che la
iscrizione
disposta in
tredici
righi, fosse
stata murata
a tempi di
Moezz,
proprio su
la porta; e
che poi,
rimutando l'edifizio
e rifacendo
il
rivestimento
del muro,
sia parso
bello di
stender quel
rabeschi in
unica fila.
Da un altro
canto,
l'arco acuto
potrebbe
essere opera
di secoli
posteriori;
per esempio,
di re
Federigo,
dopo la
occupazione
di Carlo di
Valois;
ovvero di
alcun
barone,
nell'anarchia
feudale che
straziò la
Sicilia,
correndo lo
stesso
secolo XIV.
Ma difficil
era a
sciogliere
cotesto
problema
avanti il
maggio 1860;
difficilissimo
nell'ottobre
seguente,
quando non
rimaneva
altro che il
masso della
muraglia;
impossibile
oggidì che
le fabbriche
sono
adeguate al
suolo, e che
una
passeggiata
pubblica
invita a
goder l'aria
e lo
spettacolo
del mare e
della
deliziosa
costiera, là
dove
stettero in
arme, a
volta a
volta,
guardinghi e
sospettosi,
i Musulmani,
i Normanni,
i Francesi,
gli
Aragonesi,
gli
Spagnuoli, i
Savoiardi, e
i soldati
de’ Borboni
di Napoli».
Ulteriori
preziose
informazioni,
relative
all’ingresso
meridionale
del
castello,
risalenti
allo scadere
del
Settecento,
che
potrebbero
avallare
l’ipotesi
dell’origine
musulmana
dell’archivolto,
ci vengono
fornite
dall’erudito
termitano
Gerolamo
Maria Sceusa
Provenzano,
accademico
euraceo con
lo
pseudonimo
Uranio
Bellino,
nella sua
importante
opera
manoscritta
Termini
Imerese
Splendidissima,
e Fedele
Città Della
Sicilia, suo
Nome, sua
Origine, suo
culto, e
Suoi
progressi,
sotto i
Dominij che
il nostro
Regno han
governato,
datata 1796,
ms. della
BLT ai segni
AR d β 22.
Lo Sceusa
nel suo
autografo
cartaceo ci
informa che
la detta
iscrizione
araba era
collocata
«nella Torre
ove esiste
la Porta del
R[ea]l
Castello»
aggiungendo
che «n[umer]o
due monete
d’argento
ritrovate
nelle rovine
di essa»,
erano in suo
potere e ne
riporta il
“disegno” a
penna
esibente
entrambi i
versi
presenti. Si
trattava,
quindi, di
una torre
con evidente
funzione di
fiancheggiamento,
al fine di
proteggere
l’ingresso
meridionale,
che potrebbe
essere
rimasto
immutato nei
secoli
seguenti.
Agli inizi
del Seicento
fu
realizzato
lo scavo in
roccia
lapidea del
fossato di
difesa del
ponte
levatoio (cfr.
A. Contino,
Aqua Himerae...cit.,
p. 61), a
servizio
dell’accesso
meridionale.
Quest’ultimo,
fu
successivamente
protetto da
nuove
apposite
strutture
bastionate,
rispondenti
ai più
recenti
mezzi di
offesa e di
difesa,
mentre
l’antica
entrata
medievale
divenne
ormai del
tutto
obsoleta
rispetto
allo
sviluppo
dell’artiglieria.
Nella pianta
acquerellata
di Termini
(Termine),
pregevole
anche per la
qualità
pittorica,
ma che
purtroppo
omette di
riportare
l’edificato
urbano,
inserita
nell’opera
cartacea
manoscritta
dell’incisore,
disegnatore
e cartografo
Francesco
Negro,
Plantas de
todos las
plaças y
fortaleças
del Reyno de
Sicilia
sacadas por
orde[n] de
Su Mag[esta]d
el Rey D[on]
Phelippe
Quarto anno
de
CIƆIƆCXXXX,
della
Biblioteca
Nacional de
España
(http://www.bne.es/)
(Madrid), ai
segni Ms 1,
mancano del
tutto tali
strutture
bastionate
che, quindi,
furono
realizzate
posteriormente
al 1640.
Finalmente,
sin dagli
inizi del
Settecento,
l’ingresso
meridionale
si
presentava,
protetto da
due baluardi
avanzati. Il
più interno
di tali
bastioni,
chiamato di
Villa Reale,
è visibile
nel disegno
acquerellato
di Gabriele
Merelli,
Tenente di
Mastro di
Campo Gen[era]le,
eseguito a
punta di
china di
tinta seppia
scura,
intitolato
Castello di
Termine,
contenuto
nella sua
opera
Descrittione
del Regno di
Sicilia e
dell’isole
ad essa
coadiacenti
dedicata
all’Altezza
Serenissima
del Signor
Don Gio[vanni]
D’Austria,
tomo II,
datato 16
Agosto 1677,
che si
conserva
nella
Biblioteca
Reale di
Torino, Ms.
Militari 39
(cfr. V.
Manfré,
Memoria del
potere e
gestione del
territorio
attraverso
l’uso delle
carte. La
Sicilia in
un atlante
inedito di
Gabriele
Merelli del
1677,
“Anuario del
Departamento
de Historia
y Teoría del
Arte”, vol.
22, 2010,
pp.
161-188). Il
bastione più
esterno,
invece, fu
realizzato
regnando
Filippo di
Borbone V di
Spagna e IV
di Sicilia,
ed era detto
di Balvases,
prendendo
nome dal
marchese di
Balvases,
Carlo
Antonio
Spinola e
Colonna,
viceré di
Sicilia dal
1707 sino
alla
cessione
dell’Isola a
Vittorio
Amedeo di
Savoia. I
due baluardi
erano stati
compiuti
avanzando le
fortificazioni
sul sito
dell’attuale
Belvedere
Principe di
Piemonte,
sacrificando
la parte
residua del
quartiere
della
Terravecchia
in plano
Castri, per
l’appunto
posto nel
pianoro,
sopravvissuto
in parte
all’immenso
rogo del
1571 e
definitivamente
distrutto
nel primo
ventennio
del
Settecento,
allorché si
progettò un
grandioso
rinnovamento
delle
strutture
fortificate,
giammai
realizzato (cfr.
A. Contino,
Aqua Himerae...cit.,
p. 62).
Soprattutto
nella
seconda metà
del
Cinquecento,
con
l’acuirsi
sia della
minaccia
turca, sia
delle
scorrerie
barbaresche,
l’importanza
strategica
della
cittadina
imerese si
accrebbe
notevolmente
grazie alla
presenza
nella rada
del Regio
Caricatore
del Grano
(complesso
di magazzini
per lo
stoccaggio
temporaneo
di
vettovaglie
prima di
essere
sottoposte a
dazio) che
faceva di
Termini il
Granaio di
Palermo.
Pertanto,
tra il 1553
c. ed il
1580, l’area
di
pertinenza
dell’antica
fortezza
medievale fu
ampliata con
la
costruzione
di una nuova
cinta
bastionata
provvista di
cortina con
muraglia a
scarpa,
realizzata a
sacco e
coronata di
merlatura,
nonché da
qualche
casamatta.
Tale
cortina,
secondo i
relativi
capitolati
di appalto,
avrebbe
dovuto
essere
realizzata
esclusivamente
con un
parametro
esterno in
conci
lastriformi
di pietra da
taglio,
costituita
da un
calcare
marnoso di
provenienza
locale,
squadrati e
spianati in
facciavista,
disposti in
corsi
orizzontali
e paralleli
(mentre in
realtà
ingloba
anche
frammenti di
terracotta,
ciottoli,
materiali di
reimpiego
quali
frammenti di
cocciopesto
etc.)
rilegati da
calce
impastata
con acqua
dolce, con
l’aggiunta
di cenere di
fornace (cinniràzzu)
e sabbia
fine di
provenienza
fluviale (cfr.
A. Contino,
Aqua Himerae...cit.,
pp. 60-62).
Grossi
blocchi,
generalmente
di
calcarenite
giallastra,
come abbiamo
già visto di
provenienza
non locale,
rinforzano
gli spigoli
dei bastioni
superstiti;
il medesimo
materiale
lapideo
costituisce
anche
l’elemento
decorativo
di
coronamento,
composto da
una continua
cornice che
svolgeva
anche la
funzione di
rinforzo
della
muratura e
rendeva
molto
difficoltosa
la
possibilità
di
arrampicarsi.
Il nuovo
perimetro
fortificato
inglobò una
parte della
Terravecchia,
sita in
posizione
pittoresca a
ridosso del
promontorio,
prospiciente
sul mare,
posta a N
della
culminazione
del castello
medievale e
che oggi si
presenta
totalmente
snaturato
dall’opera
distruttiva
delle cave
di pietra a
servizio
delle opere
portuali.
L’asse
principale
che
attraversava
tale
quartiere
del Borgo
intra moenia
era la Ruga
Porte False
che, per
l’appunto,
terminava
con la Porta
Falsa, dalla
quale si
poteva
raggiungere
il
promontorio
detto Muso
di Lupa,
oppure si
poteva
scendere,
attraverso
una
gradinata,
sino alla
riva del
mare dove la
roccia,
prima
dell’opera
distruttiva
delle cave,
assumeva
l’aspetto
suggestivo
di un grande
piano
inclinato,
coincidente
con la
pendenza
naturale
degli strati
calcarei,
tanto da
dare al sito
la
denominazione
vernacolare
siciliana di
Sciddicaculu,
nomignolo
appioppato
anche ai
termitani (cfr.
A. Contino,
Aqua Himerae...cit.,
p. 64). La
Porta Falsa,
antichissimo
ingresso
civico, per
la sua
posizione
strategica a
cavaliere
sul mare e
per avere
nelle sue
immediate
vicinanze il
nuovo
deposito
degli
esplosivi
(in
sostituzione
di quello
scoppiato
nel 1571) fu
protetto da
nuove
duplici
robuste
strutture
bastionate,
simmetricamente
disposte ai
lati
dell’entrata,
nonché da un
ponte
levatoio,
prendendo
poi il nome
di porta di
Soccorso o
di Mare.
Agli inizi
di Giugno
del 1860,
questo
ingresso fu
utilizzato
come via di
fuga della
guarnigione
borbonica. I
due grandi
bastioni,
furono
distrutti
negli anni
70’
dell’Ottocento,
durante le
fasi
iniziali
dell’attività
di cava,
quando i
lavori
portuali per
la
realizzazione
del primo
tronco del
molo
richiesero
il rapido
avanzamento
dei fronti
estrattivi,
che secondo
una
disposizione
comunale
dovevano
mantenersi
verticali.
La
Terravecchia
enucleata
nel
perimetro
castrense
conteneva
anche
abitazioni
civili,
alcune delle
quali
sopravvissute
all’incendio
del 1571, ed
edifici
ecclesiastici
(oggi
totalmente
scomparsi)
che dalla
seconda metà
del
Cinquecento,
con
l’ampliamento
del recinto
murario del
Castello,
erano
divenuti
“castrensi”:
S. Maria
della
Terravecchia
o Nostra
Signora
della Grazia
o della
Consolazione,
detta La
Piccola (Pichula),
per le
modeste
dimensioni,
e S. Egidio
Abate,
documentata
sin dal
1129-30 (cfr.
L. T. Withe,
Il
Monachesimo
latino nella
Sicilia
normanna,
Dafni,
Catania 1984
p. 140), nei
pressi del
Castello
medievale.
Allo stato
attuale
delle
ricerche non
conosciamo
l’esatta
ubicazione
di S.
Egidio,
sappiamo con
certezza che
era inclusa
nell’ambito
castrense ed
era
esistente e
funzionante
ancora negli
anni 60’ del
Seicento.
Alla luce di
ciò,
stupisce
alquanto
l’affermazione,
relativa
all’ubicazione
di detta
chiesa
castrense,
dello
storico
locale
Vincenzo
Solìto (cfr.
V. Solìto,
Termini
Himerese
posta in
Teatro etc.,
tomo II,
Bisagni,
Messina
1671, p. 6):
«però non
saprei
adesso
indovinare
il luogo
preciso».
Tra gli atti
ecclesiastici
presenti nei
registri
conservati
in AME,
relativi a
questo luogo
di culto
dedicato al
santo
patrono dei
lebbrosi,
degli storpi
e dei
tessitori
(celebre è
il santuario
provenzale
di Saint
Gilles du
Gard presso
Arles, sugli
itinerari
che,
rispettivamente,
avevano come
mete finali
Santiago de
Compostela e
la Terra
Santa, cfr.,
J.F.X.
Murphy, St.
Giles, in
“The
Catholic
Encyclopedia”.
Robert
Appleton
Company, New
York 1909,
ad vocem),
ci piace
ricordare
quello del
14 novembre
1666,
allorché
l’arciprete
GiuseppeColnago
benedisse le
nozze tra
Don Luigi de
Villaruel
della città
di Leon in
Spagna,
Capitan di
Corazze e
Regio
Castellano,
con Donna
Dorotea di
Francisci e
Galletti
della città
di Palermo,
proprio
nella chiesa
di S. Egidio
dentro il
Castello (cfr.
AME,
Sponsali,
vol. 25 f.
194r).
Sin dal
1553, sotto
il viceregno
di Giovanni
de Vega
(1547-1557),
sono
documentati
i primi
appalti per
le nuove
opere di
fortificazione
finalizzate
a cingere la
città ed
ampliare il
perimetro
della
fortezza.
Nelle more
dei lavori
di
ampliamento
dell’area di
pertinenza
del
Castello,
vennero
distrutti
interi
quartieri,
ubicati
nella parte
alta della
cittadina,
ai piedi
della Rocca
del Castello
e di quella
dell’Orologio.
Le nuove
strutture
bastionate,
edificate
tra la fine
degli anni
50’ e gli
inizi degli
anni 60’ del
Cinquecento,
sotto la
direzione
dell’architetto
Bartolomeo
Cascione,
nel loro
complesso
furono
denominate
Bastione
Nuovo o
Tenaglia ed
incapsularono
totalmente
la precitata
Rocca
dell’Orologio.
Tali
fortificazioni
erano
rafforzate
da due
bastioni
avanzati.
Quello
orientale,
ancora
visibile
essendo
contiguo ad
un giardino
in via
Castellana,
fu detto di
S. Clara
(per essere
sorto sul
sito del
distrutto
tardo-quattrocentesco
monastero di
clarisse
sotto il
titolo di
Nostra
Signora
della
Catena). La
funzione
principale
del bastione
di S. Clara
fu quella di
proteggere
un ingresso
secondario,
denominato
Porta della
Terravecchia,
perché da
esso si
poteva
discendere
alla
porzione del
quartiere
della
Terravecchia
inglobato
nel nuovo
recinto
castrense.
Il bastione
occidentale,
provvisto di
garitta, fu
detto della
Piazza o
della Villa
o della
Città, per
essere
rivolto
verso la
piazza
principale
della
cittadina
imerese. Le
strutture
della
cosiddetta
Tenaglia
sono tuttora
in gran
parte
esistenti,
anche se
quasi del
tutto
attorniate
dai
caseggiati
del viale
Enrico
Iannelli, e
delle vie
Belvedere,
Castellana,
Emilia e
Circonvallazione
Castello,
che sorsero
progressivamente
negli anni
70’ ed 80’
dell’Ottocento
sui lotti di
terreno
dall’amministrazione
comunale
concessi a
privati.
L’entrata
secondaria
della Porta
della
Terravecchia
era
anch’essa
servita da
un ponte
levatoio,
come
conferma un
documento
degli inizi
dell’Ottocento
che lo
ricorda per
essere
bisognoso di
lavori di
riparazione,
diretti da
Francesco
Castiglia
Capomastro
del Real
Castello. Si
tratta di
una lettera
data a
Palermo e
datata il 24
Luglio 1808,
nella quale,
per
l’appunto,
furono
stabilite le
opere di
riparazione
del ponte
levatoio a
servizio
della Porta
della
Terravecchia
(cfr.
Documenti
sul castello
di Termini,
1808- 1857,
Sezione
militare,
Ministero
della
Guerra,
fascio 407,
Segreteria
di Guerra –
n[umero] 32,
ms. BLT). En
passant, ci
piace
ricordare
un’altra
missiva,
datata 22
Aprile 1834,
conservata
nel medesimo
fondo
documentario,
nella quale
si evidenzia
che la detta
porta era
bisognosa di
urgenti
restauri
perché si
paventava la
possibilità
di sortita
ed evasione
da parte dei
reclusi nel
bagno
penale.
Quest’ultimo
era ubicato
nel «sito
più alto del
Castello
detto della
croce», cioè
nel mastio.
Quindi, sia
l’entrata
meridionale,
sia quella
della
Terravecchia
erano
protette da
ponti
levatoi e,
pertanto, vi
doveva
essere anche
il relativo
fossato,
successivamente
riempito da
materiale di
scarto
(sterro),
divenendo
così una
sorta di
discarica a
cielo
aperto. Qui
di seguito
menzioniamo
la
documentazione
da noi
scoperta e
che, per la
prima volta,
comprova
l’esistenza
della detta
trincea che
non solo
andò
irrimediabilmente
ad incidere
sugli strati
archeologici,
ma anche su
quelli del
sottostante
substrato
siliceo.
Una volta
che il
comune
acquisì la
Rocca con le
sue
pertinenze
si volle
“nascondere”
alla vista
le strutture
bastionate
della
cosiddetta
Tenaglia,
concedendo
per fini
edificatori
a dei
privati
cittadini i
suoli di
terreno
antistanti.
Ciò è
confermato,
ad es.,
dalla
deliberazione
del
consiglio
comunale di
Termini
Imerese,
approvata in
data 15
Maggio 1874,
relativa
alla
«Concessione
di terreno
per uso di
fabbricare».
Tale
delibera ci
informa che
«il tratto
di terreno
comunale
che, dal
parterre di
Belvedere al
piano di San
Giovanni
confina col
bastione del
diruto
castello»,
come da
«pianta e
stima
dell’architetto
comunale Sig
[nor].
[Antonino]
Ciresi» era
stato
«diviso in
N[umer].o
151 lotti
per la
complessiva
rendita di
lire
duemilacentottantasei
e
cent[esimi].
ventidue
annuali» da
concedersi
in enfiteusi
per «uso di
fabbricare»
(cfr. DCC 8,
1873-1880,
vol. 8, 15
Maggio 1874
n. 35,
sindaco il
Sig. Cav.
Francesco
Cosenz, ms.
BLT).
La presenza
del fossato,
anche se
ormai
occultato
dal
riempimento
di materiale
di scarto,
costituì un
fattore poco
allettante
per gli
eventuali
enfiteuti,
proprio nei
tratti in
cui
raggiungeva
una maggiore
profondità,
visti i più
alti costi
di
fondazione
richiesti.
Ciò è
confermato
da
un’ulteriore
deliberazione
del
consiglio
comunale di
Termini
Imerese,
datata 5
Febbraio
1880,
relativa
alla
«Enfiteusi
di terreno a
confinare
con il
diruto
Castello».
Da essa si
apprende che
negli anni
precedenti,
come da
rogiti in
notar
Benedetto
Geraci ed
Antonino
Gargotta
Facella,
erano stati
accordati a
dei privati,
per fini
edificatori,
dei lotti di
terreno
limitrofi
«colle
trincee del
diruto
castello a
partire dal
Passeggio
Belvedere
fino al
piano di San
Giovanni». I
lotti
contigui al
Belvedere
erano stati
già
assegnati,
mentre non
si era
potuto
«concedere
la zona
retrostante
verso il
piano di San
Giovanni
addossata ai
bastioni del
detto
abolito
castello»
giacché «il
suolo fino a
considerevole
profondità»
risultava
costituito
«di un
deposito di
sterro» e,
pertanto, i
privati
erano restii
a farsi
carico delle
elevate
spese di
fondazione
delle
abitazioni
da
edificarvi (cfr.
DCC 8,
1873-1880,
vol. 8,
sindaco il
Sig.
Giambattista
Benincasa,
ms. BLT, pp.
550-555).
Concludiamo,
evidenziando
che la
scomparsa
del castello
di Termini
Imerese e lo
stravolgimento
della sua
Rocca,
iniziata nel
1860 col
saccheggio e
sistematica
demolizione
della
fortezza,
proseguita
dal 1873 con
l’attività
di cava,
sempre più
aggressiva e
pervasiva
per tutta la
prima metà
del
Novecento
(in barba
alla legge 1
giugno 1939
n. 1089
“Tutela
delle cose
di interesse
artistico o
storico”,
pubblicata
nella
Gazzetta
Ufficiale n.
184 del
giorno 8
agosto
1939), ha
comportato
per la
cittadina
imerese una
perdita
incalcolabile
in termini
paesaggistici,
storici,
archeologici,
architettonici,
turistici,
ecologici,
geomorfologici,
stratigrafici,
paleontologici
etc.
L’irreparabile
distruzione
di quell’unicum
che era la
fortezza
termitana
con il suo
ineguagliabile
paesaggio
castrense,
frutto di un
felice
connubio tra
la naturale
possanza del
sito e
l’accorta
plurimillenaria
attività
antropica.
Non esitiamo
a catalogare
la
distruzione
ed il
successivo,
progressivo,
fatale
deterioramento
del
paesaggio
termitano,
non solo di
quello
castrense,
emblematicamente
qui
tratteggiato,
come un
ennesimo
esempio
della miope
gestione
dell’ingente
patrimonio
paesaggistico
italiano (Cfr.
E. Turri, Il
paesaggio
tra
persistenza
e
trasformazione,
in Touring
Club
Italiano, Il
paesaggio
italiano.
Idee,
contributi,
immagini,
Touring
Editore,
Milano 2000,
pp. 72-75),
da parte dei
responsabili
che, in
realtà, con
la loro
condotta
finiscono
spesso per
essere degli
irresponsabili.
Ma anche
oggi,
volendo fare
il punto del
primo
ventennio
del XXI
sec.,
dobbiamo
constatare,
purtroppo,
che una
vera,
profonda e
diffusa
cultura di
salvaguardia
e corretta
gestione
dell’ingente
ed
insostituibile
patrimonio
paesaggistico
italiano,
non è ancora
divenuta
“percezione”
comune e
partecipe
degli
italiani (Cfr.
ad es. S.
Settis,
Italia
S.P.A.
L’assalto al
patrimonio
culturale,
Einaudi,
Torino 2002;
L. Benevolo,
L’architettura
nell’Italia
contemporanea.
Ovvero il
tramonto del
paesaggio,
Laterza,
Bari 2006).
Tutto ciò,
nonostante
l’approvazione
del Testo
Unico sulla
Tutela dei
Beni
Culturali e
del
Paesaggio (cfr.
Decreto
Legislativo
22 gennaio
2004, n. 42
“Codice dei
beni
culturali e
del
paesaggio ai
sensi
dell’articolo
10 della
legge 6
luglio 2002,
n. 137,
pubblicato
nella
Gazzetta
Ufficiale n.
45 del 24
febbraio
2004 –
Supplemento
Ordinario n.
8), ed alla
luce della
più nitida
Convenzione
Europea del
Paesaggio (cfr.
Council of
Europe,
European
Landscape
Convention,
Florence
2000,
http://www.coe.int/t/dg4/cultureheritage/Conventions/Landscape/default_en.asp)
e della
carta
internazionale
del turismo
culturale (cfr.
ICOMOS,
International
Charter on
Cultural
Tourism –
1999,
http://www.icomos.org/tourism/charter.html;
ICOMOS
Australia,
Carta di
Burra per la
conservazione
dei luoghi e
dei beni
patrimoniali
di valore
culturale,
1979 e
successive
modificazioni
ed
integrazioni).
Patrizia
Bova e
Antonio
Contino
Ringraziamenti:
vogliamo
esprimere la
nostra
riconoscenza,
per
l'indispensabile
supporto
logistico
nelle
ricerche,
rispettivamente,
ai direttori
ed al
personale
della
sezione di
Termini
Imerese
dell’Archivio
di Stato di
Palermo e
della
Biblioteca
comunale
Liciniana di
Termini
Imerese. Un
ringraziamento
particolare
va a don
Francesco
Anfuso e don
Antonio
Todaro per
averci
permesso in
questi anni
di
effettuare
delle
fondamentali
ricerche
presso
l’Archivio
Storico
della
Maggior
Chiesa di
Termini
Imerese.
Questo
studio è
dedicato ai
nostri
rispettivi
padri:
Giuseppe
Bova
(1930-2020)
e Salvatore
Contino in
arte Tinosa
(1922-2008),
che ebbero
sempre nei
loro cuori
un grande
amore per la
città di
Termini
Imerese ed
un vivido
ricordo
dell’attività
estrattiva
delle cave
della Rocca
del
Castello.